Tognoli e Cervetti. L’Ambrogino d’oro dimentica Mani pulite
Anche quest’anno a Milano si ripete il rito degli Ambrogini d’oro, che questa volta ci regala qualche lampo di gioia, perché due delle medaglie di benemerenza civica saranno assegnate, il giorno di Sant’Ambrogio, alla memoria di donne come Emilia Cestelli e Francesca Fraintesa Barbieri, personaggi luminosi e fuori dai giochi delle lottizzazioni che concorrono ogni anno a formare la lista dei premiati.
Inevitabile però non notare altri due nomi che stonano, in quella lista, proprio nell’anno in cui ci si prepara a ricordare il trentennale di Mani pulite. Di quell’inchiesta furono due protagonisti di primo piano: il primo è Carlo Tognoli, sindaco di Milano, socialista, scomparso nel marzo scorso; il secondo è Gianni Cervetti, comunista, capo della corrente “migliorista” del Pci milanese.
Tognoli fu un buon sindaco, amato dai milanesi che apprezzavano la sua concretezza e la sua bonomia. Cervetti ha saputo inventarsi una seconda vita dopo la politica, fondando (insieme a Luigi Corbani e al maestro Vladimir Delman) La Verdi, diventata ormai una delle istituzioni musicali di Milano, con la sua orchestra sinfonica, il suo coro, il suo auditorium di largo Mahler. Il vizio della memoria ci costringe però a ricordare, oltre ai loro meriti, anche le loro imprese negli anni di Mani pulite.
“Tognolino” – così era chiamato – era simpatico, non puntò mai all’arricchimento personale, ma era dentro il sistema di Tangentopoli. Fu condannato in via definitiva a 3 anni e 3 mesi, per ricettazione: per aver incassato i soldi delle tangenti raccolte da Mario Chiesa, imputato numero uno di Mani pulite, che con le mazzette imposte al Pio Albergo Trivulzio finanziava sia lui, sia il suo successore a Palazzo Marino, Paolo Pillitteri, il “sindaco cognato” (di Bettino Craxi).
Tutti sembrano poi dimenticarsi perché Tognoli fu costretto a dimettersi da sindaco di Milano: nel 1986, sei anni prima di Mani pulite. Fu per l’esplodere dello “scandalo delle aree d’oro”, quando la città scoprì che la “giunta rossa”, i campioni del “riformismo” (Psi craxiano e Pci “migliorista”) avevano reso edificabili, guarda caso, proprio le aree del nuovo re del mattone, un amico di Bettino Craxi di nome Salvatore Ligresti.
Gianni Cervetti fu mandato dal Pci a studiare a Mosca, negli anni Cinquanta. Tornato in Italia, diventò segretario della federazione milanese, membro della segreteria nazionale, responsabile dell’organizzazione del partito, ministro della Difesa del “governo ombra” del Partito comunista, parlamentare europeo e poi deputato a Montecitorio.
Quando nel 1993 Antonio Di Pietro arrestò Luigi Mijno Carnevale, vicepresidente della Metropolitana milanese e cassiere delle tangenti del Pci a Milano, questi raccontò di aver versato, negli anni, 700 milioni di lire ai “miglioristi”, cioè – dice lui – a Gianni Cervetti. Processato, Cervetti fu condannato in primo grado a 3 anni per ricettazione. Durante il dibattimento d’appello, incontrò in aula il pm Paolo Ielo e gli disse: “Dottore, se mi confermano la condanna, passo da lei”.
Era l’annuncio di un innocuo saluto, o la promessa di nuove rivelazioni sulle tangenti al Pci? Non lo sapremo mai. Cervetti, infatti, in secondo grado fu assolto, con formula dubitativa: le rivelazioni di Carnevale sono “non calunniatorie”, ma non bastano, dice la sentenza, perché mancano di “dettagli specifici e particolari significativi”. Chissà se oggi Cervetti, grande vecchio della musica a Milano, che già ha raccontato L’oro di Mosca, cioè i soldi che arrivavano al Pci dall’Unione Sovietica, ha voglia di raccontare, per la storia e non per i tribunali, le cose che forse voleva dire a Ielo?