Giuseppe Sala è passato in pochi mesi dall’essere il candidato riluttante che cercava vie di fuga da Palazzo Marino, alla fiera assunzione del ruolo di sindaco con pieni poteri, eletto al primo turno e senza più opposizione: si è posto da sé sul capo la corona di Beppe II, inaugurando la fase bonapartista della sua vita sua e di Milano. Fino a quando? Finché l’inquietudine e una buona occasione politica (o manageriale) non lo porteranno ad altri approdi.
Intanto, la prima riflessione necessaria è quella sulla qualità della sua vittoria. È un vero trionfo? A metterlo in dubbio è un personaggio che la sa lunga sulla politica milanese, quel Luigi Corbani che fu vicesindaco della città e che sul Migliorista.it (mica sul Fatto quotidiano) si mostra molto preoccupato per l’astensionismo, “davanti al risultato elettorale di una città in cui metà dei suoi abitanti sono indifferenti, senza fiducia nella politica e nell’amministrazione comunale”.
Vittoria al primo turno? “Era già successo con Albertini nel 2001 e con la Moratti nel 2006”. Ma Albertini “prese 499.020 voti, più di quanti hanno votato a Milano” alle ultime amministrative (491.126), “e oltre 224 mila voti più di Sala”. Anche “Moratti ne prese quasi 80 mila più di Sala: 353.862”. E “Formentini nel 1993 prese al primo turno 346.537 voti, Pisapia sempre al primo turno ne prese 315.862, oltre 41 mila più di Sala”.
Sala è stato praticamente il candidato unico delle elezioni del 3 e 4 ottobre e di fronte a un “centrodestra inesistente” – ragiona Corbani – Sala ha “pescato voti nel centrodestra, che sarebbe buona cosa in sé, se non fosse per l’ambiguità della sua amministrazione, disattenta al patrimonio pubblico e aperta in maniera esagerata agli immobiliaristi privati”. Insomma, l’unico vero “risultato storico”, conclude Corbani, è che “un milanese su due non è andato a votare” e che Sala “è stato eletto da un quarto dell’elettorato. Un sindaco avveduto dovrebbe tenerne conto, poiché non è vero, in politica, che l’assente ha sempre torto”.
La seconda riflessione da fare è che Sala è completamente senza opposizione. Gestirà in modalità bonapartista l’impiego dei milioni del Pnrr che pioveranno su Milano. Sui grandi affari e progetti urbanistici in corso, dagli scali ferroviari alle Olimpiadi, il centrodestra sarà d’accordo con lui o comunque ininfluente. È sparita invece l’opposizione vera, che poteva condizionare o almeno controllare e moderare le sue scelte. Non ci sono più a Palazzo Marino Basilio Rizzo e la sua lista Milano in Comune. Estinti i Cinquestelle. Annientata dal voto anche la sinistra interna allo schieramento di Sala, quella di Milano Unita.
Fuori anche David Gentili, dem critico e ottimo presidente della commissione comunale antimafia. Escluso dalla giunta un altro consigliere che ha fatto l’errore di farsi notare per le sue scelte critiche, Carlo Monguzzi, che dal Pd si era trasferito per le elezioni nelle liste dei Verdi, ma nonostante le preferenze raccolte (1.276) è stato bruciato come assessore all’Ambiente da Elena Grandi (donna, che però di preferenze ne ha raccolte solo 737).
Fuori dal cruciale assessorato all’Urbanistica anche Pierfrancesco Maran, punito con la delega a rischio fallimento sulle periferie, perché comunque autonomo ed estraneo al cerchio magico del sindaco. L’Urbanistica sarà gestita direttamente da Sala, attraverso Giancarlo Tancredi, dirigente del Comune e suo sottoposto fin dai tempi in cui il sindaco era city manager di Letizia Moratti. Premiati invece personaggi come Alessia Cappello, renziana di stretta osservanza, catapultata all’assessorato al Lavoro e sviluppo economico. E allora: farà bene a Milano il bonapartismo di Sala alimentato da una corte di yesmen (e yeswomen)? Chi ha a cuore la salute democratica della città può cominciare a dubitarlo.