Dalle stragi nere alla trattativa: Mario Mori, l’uomo che visse tre volte
1. Stragi nere, le distrazioni del carabiniere
Mario Mori, ovvero l’uomo che visse tre volte. La sua ultima vita, quella da imputato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, è culminata in una assoluzione in appello cui è seguita la proposta di alcuni buontemponi di nominarlo senatore a vita. Nelle due vite precedenti, da ufficiale dei carabinieri e poi prefetto della Repubblica, Mori si è occupato di mafia ma, prima ancora, di terrorismo stragista.
La sua prima vita, quella in cui aveva a che fare con neofascisti, terroristi e stragi, è la più sconosciuta. Eppure è sintetizzata in un corposo capitolo dell’ultima sentenza sulla strage di Bologna (quella che ha condannato all’ergastolo come esecutore Gilberto Cavallini) che si conclude così: “L’ex generale Mario Mori, avanti questa Corte, ha affermato di non essersi mai occupato della destra eversiva in quanto lui è sempre stato occupato in ‘altro’. Ma ciò contrasta apertamente con una nutritissima serie di evidenze processuali e investigative di segno contrario, provenienti anche da dichiarazioni da lui stesso rilasciate (…). Alla luce di tutto quanto sopra, Mario Mori va quindi denunciato ai sensi dell’art. 331 cpp per testimonianza falsa e reticente”.
Su che cosa ha mentito, su che cosa è stato reticente? Nella sua prima vita, Mori è stato ufficiale dei carabinieri nei luoghi al centro della strategia della tensione. Dal 1965 comandante dei carabinieri a Padova, dal 1968 a Villafranca di Verona. Poi, dal 1972 al 1975, al Sid, il servizio segreto militare. Dopo un passaggio al Nucleo Radiomobile dei carabinieri di Napoli, il 16 marzo 1978 (casualmente il giorno del sequestro Moro) è andato a comandare la Sezione polizia anticrimine di Roma (dove ebbe una delega d’indagine sulla strage di Bologna e sull’omicidio del giudice Mario Amato assassinato dai neofascisti), per poi passare a Palermo, dove dal 1986 al 1990 (il periodo dell’istruttoria sull’omicidio di Piersanti Mattarella) è stato comandante del Gruppo carabinieri di Palermo 1. Come investigatore, si è trovato sempre al centro delle trame eversive, armato del più alto grado del nulla osta di sicurezza, quel Nos Cosmic che gli permetteva di accedere anche ai segreti Nato.
Le risposte svogliate al processo del 2 agosto
Interrogato il 3 ottobre 2018 dai giudici della Corte d’assise di Bologna, è apparso svogliato, ha risposto con una lunga serie di “No”, “Non ricordo nulla”, “Io mi occupavo d’altro”, “Non erano compiti miei”, “Se ne occupava un mio sottoposto”. Ha contraddetto perfino se stesso, visto che nei processi sulla trattativa ha invece raccontato di essersene occupato eccome, dell’eversione di destra.
Uno degli avvocati delle vittime di Bologna, Nicola Brigida, gli ha ricordato che il 10 luglio 1980 i suoi carabinieri di Roma sequestrano un giubbotto che conteneva, oltre a 2 etti di cocaina, 14 fototessere di Giusva Fioravanti (poi condannato definitivo per la strage di Bologna), alcuni proiettili 38 special a punta cava (proprio come quello che un mese prima aveva ucciso il giudice Amato), una piantina di Roma, zona Salaria, con segnato il deposito centrale dell’Aeronautica militare di Monterotondo, all’interno del quale era stata custodita la moto utilizzata dal neofascista Luigi Ciavardini per far fuggire Gilberto Cavallini dal luogo dell’agguato mortale ad Amato. Risposta di Mori: “Non mi ricordo nulla”.
A una domanda su che cosa abbia fatto a Palermo a proposito delle indagini sull’omicidio Mattarella (fratello del presidente della Repubblica che lo dovrebbe nominare senatore a vita), ha risposto brusco: “Ma era già morto e seppellito Piersanti Mattarella, nell’86, e non c’era già il problema Piersanti Mattarella”. Tanto che il presidente della Corte lo bacchetta in sentenza per “la finezza di una simile espressione”: “Questa Corte ritiene che le vittime del terrorismo, della mafia, di omicidi e massacri non siano mai ‘morte e seppellite’”. Poi aggiunge: “Vi è da ribadire che negli anni in cui Mori comandò i carabinieri di Palermo, l’istruttoria di Falcone su quell’omicidio era pienamente in corso. Il ‘problema Mattarella’ c’era, eccome, ma lui (Mori), evidentemente, si occupava di altro. Come sempre”. Come negli anni della “strategia della tensione”, dal 1972 al 1975, quando Mori lavorava al Sid. E come quando incrociò Licio Gelli e la P2.
L’agente del Sid e le “liste protette” della P2
Nelle liste della loggia il suo nome non c’è, ma la testimonianza (nel processo sulla trattativa) del colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo è inquietante: “Ricordo che Mori (…) mi avvicinò e mi disse che diversi nostri colleghi, di grado elevato, avevano aderito a una loggia denominata P2. Ora, in sostanza, egli mi chiedeva una sorta di consulto e di iscrizione condivisa. Io non mi prestai poiché non ho mai voluto avere nulla a che fare con la massoneria. (…) Mori tentò di convincermi spiegandomi che non si trattava di una loggia massonica come quelle di una volta e, per dare maggior forza alla sua proposta, mi sciorinò un elenco di persone ben note al Sid. Il tentativo con questi nomi altisonanti era quello di invogliarmi, ma io non cedetti. (…) Mori mi propose di andare a trovare il Gelli e che io, come toscano, gli sarei stato particolarmente gradito. Mi spiegò che costui era particolarmente interessato ad affiliare elementi del Servizio (…) che sarebbero stati messi in una lista particolare. (…) Fu lo stesso Mori a farmi presente l’esistenza di liste protette”.
2. La stagione della trattativa
La seconda vita di Mario Mori, l’uomo che visse tre volte, è quella dedicata alla criminalità organizzata, dopo la prima impegnata a occuparsi di trame nere. Ora che la sua terza vita, quella da imputato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, è culminata in una assoluzione in appello, c’è chi propone di nominarlo senatore a vita. Ma che cosa c’è davvero dentro la sua attività nel Ros, il Reparto operativo speciale dei carabinieri, nato con lui nel 1990?
Successi nel contrasto alle mafie, ma innanzitutto la trattativa con Cosa nostra. Riconosciuta dalla stessa sentenza che lo assolve (“perché il fatto non costituisce reato”) mentre condanna per averla fatta i tre imputati di Cosa nostra, riconosciuti colpevoli di “minaccia a corpo politico dello Stato”. La trattativa dunque c’è, ma per lui non è reato: dopo l’omicidio di Salvo Lima, proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, e di Giovanni Falcone, nemico giurato della mafia siciliana, Mori cerca di aprire un canale di comunicazione con Cosa nostra, per bloccare la strategia stragista.
Ha esperienza di trattative con l’antistato, sul confine sempre incerto tra indagini e concessioni: nella sua vita precedente (quando si occupava di neofascisti e stragi nere) aveva per esempio stretto rapporti molto solidi con un neofascista di rango, Gianfranco Ghiron, nome in codice “Crocetta”, a cui fece anche da testimone di nozze.
Nel 1992, individua il canale per parlare con i vertici di Cosa nostra: Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo (ma prova anche con il neofascista Paolo Bellini). Il canale Ciancimino funziona: arrivano le richieste di Totò Riina allo Stato per fermare le stragi, scritte sul “papello”. Ma arriva anche un contraccolpo terribile: Riina gongola, dice ai suoi “si sono fatti sotto”, dunque per alzare la posta della trattativa “ci vuole un altro colpetto”. L’ipotesi tremenda è che quel “colpetto” sia la strage di via D’Amelio in cui muore Paolo Borsellino.
Il covo abbandonato
Un risultato positivo è invece la cattura di Riina, il 15 gennaio 1993. Ma Mori dopo l’arresto non fa perquisire l’abitazione di capo dei capi e sospende l’attività di osservazione, senza avvertire la Procura di Palermo. Il covo viene così ripulito e perfino imbiancato da una squadretta di Cosa nostra. Anche in questo caso, però, nessuna colpa, stabilisce il Tribunale di Palermo al termine di un processo per favoreggiamento ai mafiosi: “il fatto non costituisce reato”. La sentenza sottolinea comunque che “l’omessa perquisizione della casa e l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera”.
L’“incidente” si ripete un paio d’anni dopo. Un mafioso, Luigi Ilardo, spiffera al colonnello dei carabinieri Michele Riccio che nell’ottobre 1995 avrebbe potuto trovare Provenzano in un casolare di Mezzojuso, in provincia di Palermo. Mori sorveglia ma decide di non procedere all’arresto. Il pm Nino Di Matteo chiede che sia condannato a 9 anni di reclusione per favoreggiamento aggravato. Ilardo viene ucciso dalla mafia, Mori assolto perché “il fatto non costituisce reato”. Quel blitz mai ordinato nelle campagne di Mezzojuso per i giudici è solo una “condotta negligente”, “il frutto di una, pur sicuramente colpevole, sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo”. Questo non impedisce a Mori di fare carriera, di diventare il capo del Ros, di essere promosso generale.
Due anni prima era fallito l’arresto di un altro superboss, Nitto Santapaola, capo della famiglia catanese di Cosa nostra. Un gruppo di carabinieri del Ros guidato dal capitano Ultimo il 6 aprile 1993 piomba a Terme Vigilatore, nei pressi di Messina, perché alcune microspie piazzate in zona avevano captato la voce di Nitto Santapaola, latitante da anni. Arrivati nel luogo dove credevano ci fosse il boss, vedono passare un’auto su cui credono di riconoscere nientemeno che il boss Pietro Aglieri. Una parte dei carabinieri si butta al suo inseguimento, con relativa sparatoria, gli altri irrompono armi alla mano nella casa da cui è uscito.
Risultato: sull’auto non c’era Aglieri, ma un incensurato imprenditore messinese; e nella casa, terrorizzati, i suoi famigliari. Ma Santapaola nei pressi c’era davvero: allarmato dal trambusto, fugge e la fa franca. Un particolare curioso: i sei carabinieri del blitz fallito dichiarano ai giudici che erano lì per caso. Una spiegazione, commentano i giudici, “che appare indubbiamente singolare e in definitiva inquietante”, che “offende l’intelligenza di chiunque legga le risultanze probatorie acquisite”.
Nel 2001, Silvio Berlusconi torna al governo e promuove il generale Mori prefetto della Repubblica e direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Suo fratello era già stato dipendente di Berlusconi, come direttore della Standa di Catania ai bei tempi delle minacce di Cosa nostra ai grandi magazzini berlusconiani. Finita nel 2006 la carriera di uomo dello Stato, il generale-prefetto – evidentemente sfortunato – riceve e accetta due incarichi di controllore della legalità: consulente della sicurezza del sindaco di Roma Gianni Alemanno (sotto i cui occhi crescono i tentacoli di Mafia capitale) e poi consulente del comitato per la legalità di Expo 2015 di Roberto Formigoni (poi condannato per corruzione, mentre Expo è assaltata dai corrotti e infiltrata dalle cosche). Ora è arrivata l’assoluzione per la trattativa e la proposta finale: farlo senatore a vita.