POLITICA

Perché la conversione di Salvini a Draghi non fa soffrire i leghisti

Perché la conversione di Salvini a Draghi non fa soffrire i leghisti

Bisogna guardare quassù al Nord, per capire come mai la giravolta di Matteo Salvini non abbia provocato alcuna fibrillazione dentro la Lega. Si è convertito in un amen dal sovranismo antieuropeo al sostegno europeista a Mario Draghi. Nei Cinquestelle il passaggio politico verso il governo acchiappatutti sta scatenando infiniti dibattiti e rotture dolorose; tra i parlamentari e i leader, ma anche e soprattutto nella base dei militanti, che non capiscono perché dire sì prima di sapere i contenuti dell’accordo di governo; e non sopportano di stare in un’ammucchiata con quello che una volta era lo Psiconano, oltre che con Savini e con Renzi.

Nella Lega, invece, non un sussulto: il partito che all’Europarlamento si era astenuto sul Recovery plan, ora è compatto attorno a Supermario: senza neppure chiedere garanzie sul programma e pur avendo già ricevuto un primo no sulla Flat tax. “Non poniamo veti e non diciamo no pregiudiziali”, dichiara Salvini. “Responsabilità, velocità ed efficienza: noi ci siamo”. Il tono marinettiano nasconde la fretta di chiudere un accordo senza star lì a spiegare il perché e il percome. Bisogna esserci e basta. “Per il bene del Paese”, come recita l’eterna e onnivora formula delle liturgie politiche dalla vecchia Dc a oggi.

Bisogna guardare quassù al Nord, all’area più ricca e produttiva d’Europa, tra Lombardia e Veneto, per capire che le felpe di Matteo e i suoi proclami guerrieri vanno bene per nutrire gli entusiasmi elettorali del popolo leghista. Ma la sostanza, quella che gli ricordano i Giorgetti e gli Zaia, è che bisogna essere seduti al tavolo dove si decide la sorte dei 209 miliardi portati a casa da Giuseppe Conte, ma che sarà Draghi a distribuire.

Gli imprenditori, i commercianti, gli artigiani del Lombardo-Veneto apprezzano le felpe (o le tollerano), ma poi vogliono i soldi. Gente concreta, saldamente piantata in un sistema europeo e internazionale, con un export che neppure il Covid ha fiaccato, sono un blocco sociale che – archiviate le utopie secessioniste bossiane – sta con una Lega di governo, da cui aspetta risposte e sostegno. Dei sofismi di Borghi, dei grafici di Bagnai si appassionano con moderazione: vedono 209 miliardi in arrivo e chiedono di sapere dove andranno a finire.

Ecco perché Salvini procede con “responsabilità, velocità ed efficienza” sulla via di Damasco, anch’egli fulminato da Draghi. E si unisce – solo con qualche necessaria sobrietà in più – al coro di chi inneggia al salvatore della Patria. In verità, visti i paletti, le condizioni e i controlli che l’Europa ha messo al Recovery, per gestirlo in Italia non occorrerebbe un drago ma basterebbe un buon funzionario.

Il governo Conte era riuscito a portare a casa un buon malloppo, ad avviare con qualche successo il piano vaccinale (siamo terzi in Europa), a tenere aperte le scuole, a perdere meno punti di Pil di quanto si temesse (anche proprio grazie al sistema lavoro-imprese del Lombardo-Veneto). Proprio per questo non si poteva lasciargli il possibile successo del Recovery e dei vaccini, che avrebbe reso stabile l’alleanza Cinquestelle-Pd-Leu e solida la leadership di Conte.

Ci ha pensato il killer (o sicario – Bettini dixit – di mandanti più potenti di lui) a spezzare in piena pandemia il punto d’equilibrio, avvelenando quello che lo specchio delle sue brame ripeteva essere, se non il più bello del reame, almeno di certo tanto più gradito di lui. Ora l’approdo è il sostegno ecumenico a Draghi, nuovo principe azzurro.

Ma la domanda è: come sarà possibile, finita la messa cantata sull’altare, tenere insieme in sacrestia keynesiani e salviniani, Cinquestelle e Confindustria, reddito di cittadinanza e tifosi dell’evasione (e della prescrizione), partito dell’ambiente e partito del cemento? Sarà anche santo, Draghi, ma il miracolo di accontentare tutti e tenere insieme gli opposti è proprio impossibile.

Il Fatto quotidiano, 11 febbraio 2021
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