SEGRETI

Quando i nipotini di Pio Pompa danno lezioni di giornalismo

Quando i nipotini di Pio Pompa danno lezioni di giornalismo

Che Paese stupendo, l’Italia. Succedono cose che altrove sarebbero impensabili. Specialmente nel giornalismo. È in corso, per esempio, una discussione pubblica sui servizi segreti, la loro gestione, il loro controllo democratico. Innescata dal fatto che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tenuto per sé la delega governativa sui servizi di sicurezza (come peraltro la legge gli consente di fare), mentre Matteo Renzi gli chiedeva di assegnarla a un sottosegretario.

Su che cosa sia meglio, più efficace, più democratico, si può discutere all’infinito. Il bello è però che a discettare elegantemente di spie e politica, sui giornali, sia una pattuglia trasversale di giornalisti che scrivono di corda in casa dell’impiccato, o meglio, che quella corda l’hanno in casa, visto che sono stati coinvolti di persona nella più brutta storia repubblicana di compromissione dei giornalisti con i servizi segreti, dopo quella sulle stragi di Stato: è la vicenda di Pio Pompa, grande manovratore sotterraneo dell’informazione negli anni del berlusconismo.

Aveva tra i suoi referenti giornalisti come Renato Farina, Luca Fazzo, Claudia Fusani. Proprio alcune delle firme che in queste settimane hanno scritto di Conte, servizi e caso Barr. Fusani sul Riformista rimprovera a Conte “l’incontro segreto nel 2019 con l’uomo di Trump, William Barr, di cui non fu informato neanche il Copasir” (cioè il comitato parlamentare di controllo sui servizi). Barr, allora procuratore generale degli Stati Uniti, era venuto in Italia alla ricerca di elementi per smontare il Russiagate (il sostegno di Putin alla prima campagna elettorale di Donad Trump) e per incastrare Barack Obama e Hillary Clinton, magari con la sponda di qualche spia di casa nostra, come il maltese Joseph Mifsud, professore della Link University di Roma, presunto agente della Cia impegnata a far perdere le elezioni a Trump.

Fazzo sul Giornale c’insegna quanto sia importante che “la chiave dei segreti dell’intelligence non cada nelle mani sbagliate”. Claudio Antonelli su La Verità ipotizza che Conte, sconfitto Trump, “abbia perso la sponda degli Usa”. Farina, su Libero, discetta invece di Trojan nel telefono del magistrato Luca Palamara, cioè del programma-spia che ha permesso ai giudici di conoscere le sue trattative di potere con toghe, politici, imprenditori.

Sarebbe bene, allora, non dimenticare che cosa si venne a scoprire nel 2006, quando i magistrati Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, indagando sul sequestro dell’imam Abu Omar rapito nel 2003 da uomini della Cia, scoprirono un ufficio dei servizi segreti in via Nazionale a Roma. Era il regno di Pio Pompa, detto “shadow”, l’ombra di Nicolò Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare.

Pompa aveva accumulato una mole di dossier illegali su magistrati, giornalisti, politici, intellettuali, da “disarticolare” anche con “azioni traumatiche” (linguaggio Br), perché “nemici” dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma aveva anche l’incarico di tenere (e inquinare) i rapporti con i giornalisti: soffiava notizie, chiedeva informazioni, diffondeva dossier (spesso farlocchi, come quello del Nigergate, sull’uranio che il Niger avrebbe passato a Saddam Hussein per le sue “armi di distruzione di massa”).

Nelle carte processuali compaiono molti nomi di giornalisti che telefonavano con assiduità a Pompa. Tra questi, Stefano Cingolani, Claudia Fusani, Andrea Purgatori, Oscar Giannino. E Renato Farina, l’“agente Betulla” remunerato con almeno 30 mila euro, che in alcune esilaranti intercettazioni viene “preparato” da Pompa che gli fa “ripassare la lezione” prima di una falsa intervista a Spataro e Pomarici, organizzata per poter riferire ai suoi superiori che cosa la Procura di Milano sapeva sul rapimento di Abu Omar.

Luca Fazzo, allora a Repubblica, spiava i movimenti di due suoi colleghi, Peppe D’Avanzo e Carlo Bonini, per raccontare le loro mosse e anticipare i loro articoli al suo amico dentro il Sismi, Marco Mancini. È meraviglioso che in Italia, a darci lezioni sulle “barbe finte”, siano scesi in campo giornalisti diventati “esperti del ramo” per essere stati fin troppo vicini ai servizi segreti. Ora ci insegnano la democrazia e il giornalismo.

Il Fatto quotidiano, 15 gennaio 2021
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