Milano, il soufflé si è sgonfiato. Cercansi parole nuove per la rinascita
Il soufflé si è sgonfiato. Milano è rimasta senza storytelling. La pandemia ha ucciso la stucchevole retorica della “città dell’Expo”, bella, ricca e cool, tutta grattacieli, finanza, locali, brand, stilisti, chef stellati, food e movida. Diventata capitale della seconda ondata Covid, si è trasformata in una città chiusa, silenziosa e deserta, sfiduciata e impaurita. Qui la crisi da virus pesa più che in ogni parte d’Italia: senza più la melassa retorica con cui si è raccontata negli ultimi anni, Milano è restata senza le parole per dirsi, preda di uno smarrimento più grande.
Si credeva metropoli europea, efficiente e vincente, felice dispensatrice di successo e di eccellenze. Si è scoperta invece incapace di proteggere i suoi vecchi lasciati morire nelle case di riposo, di curare a domicilio famiglie intere infettate e abbandonate per mesi a se stesse, di riorganizzare i suoi trasporti in sicurezza, perfino di garantire un normale piano di vaccinazioni anti-influenza.
Tutto era smart, scintillante, positivo, innovativo, affluente, glorioso. Il livello era alto, dunque la caduta è stata più dolorosa. Il soufflé si è sgonfiato e sono apparse impietose le rughe e le crepe di un sistema che si mostrava invincibile ed era invece fragile e friabile, più narrazione che sostanza, più marketing che realtà. Nascondeva le lacrime e la rabbia delle disuguaglianze crescenti dietro il make up del successo che crea successo e dei soldi che creano soldi.
La città ha perso da decenni la sua anima industriale e produttiva, ha da tempo smarrito il suo orgoglio di capitale morale. Li ha sostituiti con una fantasmagorica ma incerta identità neo-terziaria, con i rider colonna portante loro malgrado del nuovo sistema, sotto cui riposa una rendita antica e ricchissima e sopra cui svettano le torri dei nuovi Signori della città, i grattacieli con il logo ai led dei nuovi Capitani di ventura (Unicredit, Paribas, Generali, Allianz…).
Milano merita una rinascita. Potranno mai realizzarla gli uomini della vecchia narrazione, dei magheggi Expo replicati con il banchetto delle Olimpiadi? Il “ritorno alla normalità” – come diciamo nella pubblicità del Fatto – non potrà essere un ritorno alla normalità di prima. Ma non si vedono uomini nuovi, solo i vecchi più intristiti e stanchi, meno entusiasti, con addosso il peso dei grandi affari già avviati che devono portare a compimento.
Non si vedono punti di riferimento, personalità capaci di parlare allo smarrimento e indicare il cammino per la ripresa, come furono in passato – per buttare qualche nome alla rinfusa – Antonio Greppi e Raffaele Mattioli, Carlo Maria Martini e Leopoldo Pirelli, Italo Pietra e Camilla Cederna, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, Dario Fo ed Enzo Jannacci.
Il socialismo ambrosiano, quello della Società Umanitaria che piaceva perfino al conservatore Carlo Emilio Gadda, è dimenticato. Riformismo è diventata una parola vuota, uno slogan da agitare, niente a che vedere con il riformismo vero che tirava su in pochi anni interi quartieri di case popolari per accogliere a Milano migliaia di terroni del Sud e del Nord (tra cui i miei genitori friulani, fieri di essere diventati milanesi).
Oggi si cerca invece di consolarsi accontentandosi di poco, di Ursula von der Leyen che ripete “Milan l’è on gran Milan”, dei droni che volano tra i grattacieli e la Madonnina nel giorno di Sant’Ambrogio per la prima volta senza Opera. Milano intanto resta con l’aria avvelenata, mentre aspetta i grandi affari che porteranno nuovo cemento per nutrire la prossima bolla immobiliare e soldi anonimi arrivati dall’estero, anch’essi a loro modo covidizzati, perché non hanno odore. Si cerca di tornare, senza nemmeno più crederci troppo, alla stessa retorica magniloquente del passato. Ma il soufflé, una volta smontato, non si può ricreare.