“La peste alle porte”. Il documento di Noi Denunceremo
La peste alle porte. Era il 30 gennaio 2020 – attenti alle date – quando il ministero della Salute informava tutti i presidenti delle Regioni italiane che era in arrivo una pandemia simile a quella della peste: “Il nuovo virus, pur essendo per il momento classificato come di tipo B quanto a pericolosità (al pari di quelli della Sars, dell’Aids e della Polio), viene gestito come se fosse appartenente alla classe A (la stessa del colera e della peste)”.
Ventuno giorni dopo, viene individuato a Codogno quello che è considerato il “paziente 1” del Covid-19. Ma uno dei presidenti a cui era arrivata la circolare ministeriale che evocava la peste, il lombardo Attilio Fontana, doveva essere molto distratto, perché 26 giorni dopo averla ricevuta, il 25 febbraio, dichiarava: “Cerchiamo di sdrammatizzare, è una situazione senz’altro difficile, ma non così tanto pericolosa: il virus è molto aggressivo nella diffusione, ma molto meno nelle conseguenze. È poco più di una normale influenza”.
A ricostruire gli agghiaccianti passaggi di una epidemia spaventosa e di un’azione di contrasto disastrosa, proprio nell’epicentro della prima ondata, la Lombardia, è il comitato Noi Denunceremo, che a partire da Bergamo ha raccolto oltre 70 mila persone, parenti dei morti e sopravvissuti, che raccontano le loro storie affinché tanto dolore non sia disperso nel vento.
Ieri i rappresentati del comitato, Stefano e Luca Fusco e l’avvocato Consuelo Locati, hanno depositato alla Procura di Bergamo un esposto di 66 pagine in cui allineano ulteriori elementi per contestare, agli amministratori pubblici che hanno sottovalutato la situazione e malgestito il contrasto, il reato di epidemia colposa. Ipotizzando anche il “dolo eventuale”, quello che fu contestato ai dirigenti della Thyssenkrupp durante il processo per la strage che avvenne a Torino nella notte tra il 6 e il 7 dicembre del 2007, quando morirono sette operai a causa di un rogo sulla linea 5 dell’acciaieria.
Il pool guidato dall’allora procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello ottenne in primo grado la condanna dei dirigenti dello stabilimento per “omicidio volontario con dolo eventuale”: quei dirigenti si erano rappresentati “la concreta possibilità del verificarsi di un incendio, di un infortunio anche mortale, accettandone il rischio”. In appello e in Cassazione, il reato fu riformulato da “omicidio volontario con dolo eventuale” a “omicidio colposo con colpa cosciente” (la colpa nella sua forma più grave), con condanne comunque molto pesanti per quello che era consideravato un “incidente”.
Ed è qui che i legali di Noi Denunceremo vedono le maggiori analogie con la pandemia: “La reiterazione delle condotte omissive”, scrivono, “è provata dall’assoluta identità di comportamenti omissivi posti in essere nelle prima fase pandemica e reiterati, senza alcuna modifica, anche nei mesi successivi al mese di marzo 2020 e sino a oggi”.
Quanti errori, quante sottovalutazioni, nell’affrontare la prima e poi la ancor più prevedibile seconda ondata. Il comitato Noi Denunceremo ha già fatto osservare che nel 2019 non avevamo un piano pandemico aggiornato e che quello del 2017 era un copia-e-incolla del piano del 2006, compilato senza neppure aggiornare le date. Eppure, “prepararsi alla prossima pandemia di influenza è una nostra responsabilità collettiva”, diceva il direttore della Divisione delle emergenze sanitarie presso l’Organizzazione mondiale della sanità-sezione Europa, già nel giugno 2018, giusto 18 mesi prima del Covid-19. “Siete pronti a gestire una pesante pandemia nei vostri Paesi? I vostri piani pandemici sono stati aggiornati?”.
Era l’ultimo campanello di allarme. Inascoltato. Ora, Noi Denunceremo ha scovato una bozza, datata 11 aprile 2019, inedita e mai tradotta in piano definitivo. Eppure era ricca di suggerimenti che sarebbero stati preziosi. Si apriva così: “La pianificazione e la preparazione sono fondamentali per contribuire a mitigare il rischio e l’impatto di una pandemia e per gestire la risposta e la conseguente ripresa delle normali attività”.
Invece a febbraio 2020 ci fu la gestione sciagurata dell’emergenza in Lombardia, con la riapertura dell’ospedale-focolaio di Alzano Lombardo (23 febbraio) e subito dopo la non chiusura in zona rossa dei cluster di Alzano e Nembro (Bergamo), di Lodi e di Orzinuovi (Brescia): “Una responsabilità omissiva” della Regione Lombardia, “per non aver posto in essere quanto era suo preciso obbligo attuare per tutelare la salute e la vita dei cittadini. La Regione non fece scorta di Dpi (mascherine e altre protezioni individuali) nonostante sapesse del rischio di epidemia sin dal 22 gennaio 2020, non si attivò per reperire agenti reagenti per l’effettuazione di tamponi per il tracciamento della catena di contagio del virus, non provvide al tracciamento immediato della catena di contagio, attraverso l’effettuazione di tamponi immediati e test (come invece fu fatto dalla Regione Veneto). Non comunicò quali fossero i numeri dei casi di polmoniti anomale (…) almeno da novembre/dicembre 2019”.
Il presidente Fontana ha dichiarato di essere stato “tenuto all’oscuro” delle direttive nazionali. Eppure fu un suo uomo, il direttore generale di Areu (Azienda regionale per l’emergenza urgenza in Lombardia), Alberto Zoli, a esporre al ministro della Salute Roberto Speranza il piano elaborato dal Comitato tecnico scientifico per fronteggiare la possibile pandemia.
Già il 29 febbraio, comunque oltre una settimana dopo il primo caso italiano di Covid-19, Cts e ministero della Salute sollecitavano le Regioni: dovete comunicarci quanti posti letto in terapia intensiva avete a disposizione. Solo il 1° marzo, ottenuti i dati regionali, il comitato vara l’aumento del 50 per cento dei posti letto in terapia intensiva e del 100 per cento nei reparti di pneumologia e malattie infettive. Troppo tardi.
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