Gratteri: “Basta celle aperte, tornare alle regole nell’alta sicurezza”
Rendere più rigoroso il regime carcerario di alta sicurezza. Negli anni si è andato allentando, con celle lasciate aperte. Ora i responsabili del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, vogliono tornare a un regime più severo. Tra i detenuti coinvolti c’è anche Antonio Papalia, uomo della ’ndrangheta impiantata in Lombardia, che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, conosce bene.
Procuratore, è d’accordo con questo cambiamento?
Se c’è una distinzione tra altra sicurezza e media sicurezza nelle carceri italiane, c’è un motivo. L’alta sicurezza è solo un gradino più sotto del carcere duro regolato dal 41 bis. Vi sono reclusi mafiosi che sono gregari e non promotori e altri criminali pericolosi, che hanno commesso reati gravi. Se il ministro ha in programma il ripristino delle regole, ben fa, sono d’accordo. E ben fa la nuova gestione del Dap.
Non c’è il rischio di comprimere i diritti dei carcerati e di far venire meno la funzione rieducatrice della pena?
Ma no, lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti. Una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole. Se chi è preposto al controllo non osserva le regole, è un pessimo educatore, dà un pessimo messaggio alla popolazione carceraria.
È un periodo complicato per le carceri italiane. Ci sono state le rivolte, poi le scarcerazioni durante il periodo di lockdown, molte polemiche, qualche cambio ai vertici del Dap, ora il rientro in cella di alcuni dei detenuti che erano stati mandati agli arresti domiciliari. Che cosa sta succedendo?
Per anni molti degli addetti ai lavori hanno fatto finta di non vedere e non sentire. Le rivolte sono state possibili anche perché le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza. In questi sono reclusi non i capi, ma gli esecutori, che hanno una normale ammirazione nei confronti dei capi e sono garzoni e strumenti dei capi. Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti.
È stato un momento di disorientamento che ora lo Stato sta superando o la crisi della gestione carceraria continua?
Se siamo ancora al punto di discutere se chiudere o no le celle, vuol dire che siamo ancora in un momento di confusione. Ma vedo che qualche correzione si sta apportando. Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario. Potremmo cogliere ora l’occasione per risolvere il problema per i prossimi 20-30 anni. Basta un solo progetto da replicare quattro volte in quattro luoghi geografici diversi. Pensi che a New York c’è un carcere con 18 mila posti, a Miami di 7 mila. Sto indicando un esempio d’infrastruttura, non un regime carcerario, quello americano, da assumere come modello. In Italia abbiamo tanti piccoli istituti da 100, 150 posti, con costi fissi altissimi e pochi detenuti. Dovremmo costruire strutture più grandi ed efficienti, sempre garantendo la finalità rieducativa della pena. Risolveremmo il problema del sovraffollamento che sta tanto a cuore all’Europa, che si ricorda dell’Italia per il sovraffollamento, ma non per contrastare adeguatamente le organizzazioni mafiose presenti fuori dall’Italia. Dovremmo adottare per i detenuti lo stesso metodo di recupero che si usa per i tossicodipendenti, con ore di lavoro e sedute di psicoterapia. Invece in tante carceri italiane i detenuti stanno otto ore davanti al televisore.