SEGRETI

Dal generale De Lorenzo a Scaramella. I dossier-patacca non finiscono mai

Dal generale De Lorenzo a Scaramella. I dossier-patacca non finiscono mai

La patacca d’autore è un cocktail molto colorato e molto alcolico, preparato da bartender che mixano il vero e il falso in dosi variabili. Il risultato deve stupire, indignare, sbalordire, sorprendere. Deve essere credibile. E deve fare male: colori, sapori e ombrellini di carta nascondono nel bicchiere sempre una dose di veleno.

È una vecchia storia: la politica – in particolar modo quella italiana – si è sempre servita di dossier, minacce, documenti segreti, allusioni, attacchi, ricatti. I professionisti del settore, mixologist da bar notturno, veleggiano tra luce e ombra, verità e menzogna, apparati e illegalità. Si danno arie da agente segreto, ma non hanno mai una patente ufficiale e sanno che saranno scaricati alla prima occasione. “Dirty job”, dicono in America. Lavoro sporco.

Chissà se il documento venezuelano sui soldi passati ai Cinquestelle fa parte di questa storia gloriosa d’ignominie. Iniziata nel dopoguerra come arma psicologica nella lotta al comunismo, con veri artisti del settore, tipo James Jesus Angleton, ha visto all’opera in Italia figli, figliastri e nipotini, da Federico Umberto D’Amato al generale Giovanni De Lorenzo, dal Venerabile Licio Gelli al giornalista Mino Pecorelli. Fino a personaggi più pittoreschi che romanzeschi, da Mario Scaramella a Igor Marini. Un’informazione pronta a credere alle patacche chiude il cerchio.

Dal caso di Wilma Montesi al coinvolgimento degli anarchici nelle bombette precedenti Piazza Fontana, e quindi poi nella strage della Banca dell’agricoltura, la storia italiana è fatta anche di bufale e dossier. Poi la cupa grandezza delle manovre occulte della Prima Repubblica ha lasciato il posto a operazioni più sguaiate. I dossier di casa Berlusconi contro Antonio Di Pietro. L’intercettazione di Piero Fassino (“Abbiamo una banca?”) portata ad Arcore e finita in prima pagina sul Giornale. La “macchina del fango” di Vittorio Feltri contro il direttore dell’Avvenire Dino Boffo.

Ha tentato – invano – di tornare ai fasti del passato Pio Pompa, detto “shadow”, l’ombra del direttore del servizio segreto militare Nicolò Pollari. Aveva accuratamente schedato, a partire dal 2001, coloro che riteneva fossero i “nemici” dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prospettando che fossero da “disarticolare” (verbo da volantino Br), anche con “azioni traumatiche”. Tra i “nemici” da “disarticolare”: 200 magistrati di Milano, Palermo, Roma, Torino, alcuni dei quali impegnati in indagini su Berlusconi, e poi politici, intellettuali, giornalisti (tra cui chi firma questo articolo e il direttore di questo giornale).

Altri giornalisti – si fa per dire – erano invece a libro paga del servizio: come Renato Farina, nome in codice Betulla. Tra i dossier di Pompa, ce n’era uno intitolato: “Network telematico di delegittimazione del Premier e della sua compagine governativa”. La Spectre 2.0? No. I “principali siti del network” erano societacivile.it, manipulite.it, centomovimenti.it, cioè le pagine web pubbliche di alcune associazioni e dei cosiddetti “Girotondi”. Uno stagista avrebbe saputo fare meglio.

E Scaramella? Aveva un nome che non lo aiutava. Eppure, dopo una vita nel sottobosco dei servizi, viene assunto da Paolo Guzzanti (non Corrado), allora senatore di Forza Italia, come consulente della Commissione Mitrokhin sulle attività del Kgb in Italia. Da quel podio, l’ineffabile Scaramella sostiene che il presidente del Consiglio Romano Prodi e il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio sono agenti del Kgb. E che l’allora presidente della Regione Campania Antonio Bassolino ha assegnato appalti a “cooperative rosse” legate alla camorra. Prove: nessuna.

Il massimo dello show viene raggiunto da Igor Marini, che da scaricatore di cassette al mercato ortofrutticolo di Brescia diventa “operatore finanziario” e grande accusatore dello scandalo Telekom Serbia. Al suo fianco, Antonio Volpe, a lungo collaboratore del servizio segreto militare. Marini parla, denuncia, accusa. Sostiene che nell’acquisizione dell’azienda telefonica serba da parte di Telecom Italia sarebbero state pagate tangenti a uomini di governo del centrosinistra: mica scartine, ma leader di primo piano come “Mortadella” (Romano Prodi), “Cicogna” (Piero Fassino) e “Ranocchio” (Lamberto Dini).

Accuse infondate, prove false. Ma mesi e mesi di dibattito, polemiche, commissioni d’inchiesta, processi. A questo servono le patacche. I cocktail variopinti girano, i veleni si diffondono, l’aria esotica – ieri la Russia e la Serbia, oggi il Venezuela – li rende più misteriosi e credibili. Alla fine, di solito, la bolla scoppia. Ma c’è sempre chi è pronto a scommettere che la verità è stata insabbiata. Il mal di testa resta.

Il Fatto quotidiano, 17 giugno 2020 (versione ampliata)
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