Eni. Descalzi versus Zingales, l’ultima delle fake news
Un professionista della comunicazione si vede nei momenti di crisi. È sotto attacco che si valuta il valore di un esercito e la qualità di un apparato comunicativo. Sotto attacco, e con le nomine dei vertici alle porte, Eni ha sfoderato una strategia per cercare di contrastare quel paio di mezzi d’informazione (tra cui il Fatto quotidiano) che raccontano ciò che nessuno racconta.
E cioè che il suo amministratore delegato, Claudio Descalzi, è imputato di corruzione internazionale per la supertangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari pagati dalla compagnia petrolifera per il giacimento Opl 245 e finiti tutti, invece che allo Stato nigeriano, ai politici locali e a una corte di mediatori italiani e internazionali; è sotto osservazione per il gigantesco conflitto d’interessi in Congo, dove società controllate dalla moglie, Marie Madeleine Ingoba, hanno incassato da Eni oltre 300 milioni di dollari per servizi logistici; è indicato come l’utilizzatore finale di un’incredibile manovra di depistaggio che, secondo i pm, Eni avrebbe commissionato all’avvocato Piero Amara, per inquinare le inchieste milanesi e realizzata dalla security della compagnia anche spiando, dossierando, pedinando e intercettando alcuni dei magistrati impegnati nelle indagini.
Raccontare questi fatti non è sferrare un attacco: è giornalismo. Le eventuali responsabilità penali sono ancora da accertare, ma i fatti sono veri: dunque prudenza vorrebbe che Descalzi non fosse confermato alla guida della più strategica delle aziende italiane. Perché delle due l’una: o è un corrotto, ha avuto un gigantesco conflitto d’interessi in famiglia e un potente apparato d’intossicazione giudiziaria a sua disposizione; oppure non si è accorto di quello che da anni gli succede attorno. E per un top manager di Stato, la seconda è peggio della prima.
La reazione Eni allo stato di crisi? In positivo, valorizzare i risultati industriali di Descalzi (in vero non così entusiasmanti); vendere una svolta green ancora tutta da fare; e accreditare l’attuale numero uno come il solo e unico supermanager capace di affrontare gli scenari geopolitici e di reggere il “grande gioco” in cui si muovono cancellerie, interessi forti, potenze straniere, servizi segreti. In negativo, minimizzare le accuse penali, in attesa delle sentenze, e svalutare i testimoni d’accusa: ben pagati e riveriti manager o consulenti ieri (quando facevano ciò che alla compagnia conveniva, magari anche infrangendo le leggi), mascalzoni bugiardi e ricattatori oggi (che ammettono i comportamenti scorretti del passato, asserendo di averli fatti su ordine dei vertici aziendali).
Il tocco di genio in questa strategia comunicativa è il tentativo di rendere la scelta del numero uno della compagnia una sorta di scontro all’ok corral tra due personaggi: Descalzi versus Luigi Zingales. L’economista italiano che insegna all’università di Chicago non è un manager e non ha alcuna intenzione di candidarsi per quel ruolo. Ma la personalizzazione del conflitto funziona, almeno per un pubblico poco sofisticato. Zingales ha rilasciato un’intervista al settimanale L’Espresso in cui dice cose di buon senso su Eni, Descalzi e l’inopportunità della sua riconferma.
È bastato al Giornale di Sallusti (e alla Verità di Belpietro) per inventarsi un inesistente duello Zingales-Descalzi, con il primo sostenuto dal Fatto quotidiano. L’economista è così due volte vittima di una vicenda che ha a che fare con Eni: la prima quando, membro indipendente del consiglio d’amministrazione della compagnia, ha chiesto chiarezza sulle vicende africane in cui Eni era indagata per corruzione internazionale ed è stato denunciato dai vertici aziendali e indagato con false accuse; la seconda oggi, indicato dal Giornale come capo della “lobby Usa che vuole scalare l’Eni”. Ridicolo. O preoccupante?