Le incoerenze degli amici della prescrizione
“Barbarie”, “inciviltà giuridica”, “condanna a essere imputato a vita”. Lo stanco refrain degli amici della prescrizione continua a essere ripetuto, nella speranza che risulti alla fine anche vero. Ma vero non è. Incivile è, una volta che lo Stato ha intrapreso l’azione penale contro una persona, buttare il lavoro fatto, perché scatta la tagliola della prescrizione all’italiana.
Incivile è che le vittime dei reati non possano vedere la fine del processo in cui sono imputati i loro (possibili) carnefici. Incivile è che le vittime siano condannate – loro sì – a restare sospese a vita, inchiodate a un doppio destino: non riuscire ad avere giustizia attraverso la condanna del colpevole; ma restare anche per sempre con il terribile dubbio che un innocente (prescritto) possa essere il loro colpevole carnefice.
Incivile è usare la prescrizione come cura contro l’eccessiva lunghezza dei processi; in Italia la lunghezza dei processi – è vero – è una malattia, ma l’antidoto non può certo essere la prescrizione: sarebbe come accettare che gli ospedali mandassero a casa a metà della cura i pazienti che non riescono più a curare per mancanza di medici o di soldi o di posti.
Gli amici della prescrizione, convinti delle sue taumaturgiche virtù, dovrebbero accordarsi con se stessi. Inveiscono contro la riforma Bonafede che rende almeno un po’ meno devastante la scure della prescrizione. Ma poi si compiacciono della condanna (in primo grado) arrivata a Gilberto Cavallini a quarant’anni dalla strage di Bologna.
Certo, il reato di strage è gravissimo e – per fortuna – non si prescrive mai. Ma se fossero coerenti dovrebbero inveire anche contro la “barbarie”, l’“inciviltà giuridica”, la “condanna a essere imputato a vita” inflitta a Cavallini. Oppure – meglio – applaudire a una riforma che finalmente impedisce di incenerire migliaia di processi ogni anno lasciando senza giustizia soprattutto i più deboli.