Hammamet, la mesta Salò del Craxi di Gianni Amelio
Alla domanda, cortese, sui rapporti tra realtà storica e invenzione poetica nel film Hammamet, il regista Gianni Amelio reagisce perdendo le staffe. Inveisce contro il Fatto quotidiano, colpevole di aver pubblicato, a fine ottobre 2019, un articolo dal titolo “Lacrime d’autore (e di Stato) per un Craxi martire”. Non è un film sul Craxi politico, urla Amelio, ma sulla lunga agonia di un uomo di potere che si avvia verso la morte. È la storia, dice, del rapporto tra un padre e la figlia vera (non Stefania ma Anita, come la moglie di Garibaldi); e tra un padre e un figlio immaginato (Fausto, figlio in realtà di un cassiere delle tangenti morto suicida).
Ma Amelio ha rifiutato la proposta iniziale che racconta di aver ricevuto da Agostino Saccà (ex socialista e coproduttore del film, insieme a Rai Cinema) di raccontare Cavour. Non ha nome né è mai nominato, ma è certamente Craxi il personaggio che prende vita sullo schermo, interpretato mimeticamente da un incredibile Pierfrancesco Favino, portentoso ma calligrafico. È Mani pulite che viene evocata, come un complotto misterioso, realizzato da un giudice anch’egli senza nome, per far fuori un leader di partito rappresentato oniricamente come un ragazzino fiero che spacca i vetri con la fionda e sorride indomito davanti al prete che lo punisce.
Il Craxi senza nome viene raccontato al suo crepuscolo. Nella villa di Hammamet va in scena la mesta Salò del craxismo. I ricordi di una carriera politica ormai spezzata, il rapporto struggente con la figlia, i dolori di una malattia coltivata (“Non voglio dare anni alla vita, ma vita agli anni”) costringono lo spettatore a una pietas dovuta allo sconfitto che ha ormai dismesso la sua arroganza e dimenticata la sua ubris. Ma raccontare il craxismo da Hammamet è come raccontare il fascismo da Salò, pur senza l’estrema ferocia della guerra: affidandosi alle sole parole dell’eroe sconfitto, finito, ammalato, abbandonato.
Ma neanche Amleto si spiega senza le colpe e gli intrighi della vita in Danimarca. E Hammamet non si può capire senza Tangentopoli e senza Mani pulite. Ma Tangentopoli non si può spiegare soltanto con il “così facevano tutti”, né con l’Italia “diventata quinta potenza del mondo”. Ci sono anche le opere pubbliche dai costi decuplicati, l’ingordigia dei partiti, il giro d’affari della corruzione stimato attorno ai 10 mila miliardi di lire all’anno, l’indebitamento pubblico che porta il Paese alle soglie di un crac argentino. Non si può spiegare Mani pulite con un nebuloso complotto antisocialista, forse reazione a una Sigonella ricostruita dal nipotino con un aeroplanino e i soldatini sulla spiaggia; e con il Pci salvato dai giudici; e con le confessioni estorte in cambio della libertà.
Tutti i più triti (e falsi) luoghi comuni su Mani pulite prendono vita sullo schermo, con l’ipocrisia della citazione, senza che il regista li faccia propri: spiega feroce al cronista del Fatto di aver usato due diversi formati sullo schermo, il 16:9 e il 4:3, perché fosse chiaro che la sua era una rappresentazione, che la responsabilità di ciò che dice è tutta del Craxi che parla e ricorda e inveisce, di aver offerto allo spettatore le dichiarazioni del Presidente “quasi virgolettate”. Realtà storica, dunque, o citazione poetica? La domanda resta senza risposta, il film sospeso, la storia confusa e irrisolta.