Piazza Fontana, Pinelli, Sofri e i pezzi mancanti
Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati.
Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo – e in modo ufficiale – chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l’Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l’Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage.
Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana (La maledizione di piazza Fontana, Chiarelettere) i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini.
Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell’anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, mentre la sentenza D’Ambrosio stabilisce che il commissario non era nell’ufficio. Gli replica Benedetta Tobagi sul Foglio del 17 dicembre 2019: dallo stanzone dov’era, Valitutti potrebbe non averlo visto uscire; lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta.
Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l’assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini sulla morte di Pinelli, sulla base – dice – di un fatto nuovo: nella questura di Milano, che dalla sera del 12 dicembre 1969 è al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra e il suo vice Luigi Calabresi erano “guidati” dagli uomini dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno arrivati da Roma. In questura in quei giorni c’erano Elvio Catenacci, capo degli Affari riservati, Guglielmo Carlucci, comandante della sua VI sezione, Silvano Russomanno, Francesco D’Agostino, Ermanno Alduzzi e una decina di uomini della “Squadra 54” che “dovevano rimanere riservati”. Sono loro a prendere la direzione delle operazioni.
È una “novità” che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice veneziano Carlo Mastelloni e delle successive indagini dei pm milanesi Grazia Pradella e Massimo Meroni, che rivelano anche l’esistenza della “Squadra 54”. Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D’Amato, che aveva uno stuolo di informatori (“Le trombe di Gerico”), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l’infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l’Alcatraz) e agente di Vasco Rossi.
Proprio di D’Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto “conoscente comune” lo mise in contatto con l’anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere “un mazzetto d’omicidi”, garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D’Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d’autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D’Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi “come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)”.
Tobagi ricorda che fu messa “in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio”, ma “nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D’Amato sorseggiava alcolici d’annata, Sofri bevesse, che so, chinotto”. Al di là delle bevande, sarebbe bello che l’allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso “conoscente comune” e come sia stato possibile che D’Amato – lo stesso che manovrava la “Squadra 54” – gli abbia chiesto quel “mazzetto d’omicidi”.
Conclude Benedetta Tobagi: “L’ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia”. Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: “Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita”.
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