Virginio Rognoni: “Piazza Fontana, volevano fermare l’apertura a sinistra”
Virginio Rognoni divenne ministro dell’Interno nel 1978, sostituendo al Viminale Francesco Cossiga, azzoppato dalla gestione del sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse.
Qual è il suo ricordo del giorno della strage di piazza Fontana?
Nel 1969, quando scoppia la bomba, ero deputato solo da un anno. La notizia l’appresi a casa, a Pavia; provai rabbia, un indicibile sgomento e orrore per la crudeltà contro persone innocenti, cittadini intenti alle incombenze della propria giornata.
Fu subito imboccata la pista “rossa” e arrestato l’anarchico Pietro Valpreda. Lei che cosa pensava della matrice politica della bomba?
Le informazioni sull’origine della bomba erano all’inizio confuse anche per la poca credibilità della pista anarchica. La bomba dell’anarchico era troppo fuori dal tempo; no, quella non poteva essere la pista corretta. Il Paese viveva un momento difficile. Eravamo ancora dentro il ’68 con tutta la sua ricchezza e le sue ambiguità. Il centrosinistra, con l’ingresso dei socialisti al governo, era stato avviato da qualche anno e i problemi non mancavano. C’era gente che frenava il cambiamento e gente che lo spingeva: moderatismo contro riformismo. Tuttavia, nella Dc il progressivo allargamento della base democratica del potere era un obiettivo sostanzialmente condiviso anche dai centristi subentrati a Moro nella direzione del partito. Ferma la pregiudiziale antifascista della Costituzione, in gioco c’era la legittimazione al governo di tutte le forze della rappresentanza politica del paese. Già allora si poteva pensare che presto o tardi ci sarebbe stato, nel pieno rispetto del voto popolare, il superamento della famosa “conventio ad escludendum” che teneva il Pci fuori dall’area governativa. La storia del Paese andava in questa direzione; con la strage si è voluto fermare e invertire questo percorso: si mette la bomba per determinare una svolta autoritaria e così stabilizzare gli equilibri politici su basi regressive. Piazza Fontana è l’inizio della lunga stagione dello stragismo, e intanto il processo per la strage alla Banca dell’agricoltura si fa torbido, anni durissimi di disordine istituzionale, di indagini contraddittorie e mai concluse.
La Democrazia cristiana era un partito con molte anime. Come ha vissuto quel momento, nei suoi ricordi?
Ero della Base, la corrente di sinistra e quella politicamente più laica del partito, molto vicina a Moro e alla sua politica, quasi pedagogica, per la democrazia compiuta dell’alternanza. La matrice neofascista della strage di Milano era stata subito la congettura più persuasiva.
Il presidente del Consiglio dell’epoca, Mariano Rumor, dopo piazza Fontana si rifiutò di dichiarare lo stato d’emergenza. E per questo i fascisti di Ordine nuovo tentarono di ucciderlo, nella strage della questura di Milano del 1973.
Se avesse dichiarato lo stato d’emergenza, avrebbe riconosciuto e legittimato la svolta autoritaria che la strage di Milano voleva provocare. Così non è stato; il presidente Rumor, e con lui la Dc, ha preservato il Paese da una probabile guerra civile, garantendo il corso virtuoso della democrazia, pur in mezzo a mille difficoltà.
Ma era la Dc degli “opposti estremismi”, della democrazia ugualmente minacciata da destra e da sinistra, mentre le bombe erano tutte di destra.
Gli opposti estremismi erano una realtà di fatto; il confronto fra moderatismo e riformismo era facile che diventasse, in quel clima infuocato, lo scontro fra una destra estrema e una sinistra del “qui e ora”.
La Dc ha però creduto alla “pista rossa” e ha dato fiducia ad apparati dello Stato che depistavano le indagini e proteggevano gli stragisti. Come ricorda i rapporti tra i leader democristiani e i capi dei servizi, del Sid e dell’Ufficio affari riservati?
Non è così e lo prova la condotta di Rumor e della Dc. Certo che l’esperienza che ho fatto, appena eletto, quale componente della commissione d’inchiesta parlamentare sul Sifar e sul “piano Solo” del generale Giovanni Di Lorenzo mi ha fatto vedere da vicino quanto nel “corpaccione” del Paese fosse presente il pericolo del golpe e dell’intrigo, quanto gli apparati di sicurezza dello Stato fossero portati ad avere uno spazio autonomo, quasi strumenti di un governo invisibile. A questa esperienza si riconduce anche il ricordo di quando, dopo molti anni, con ostinata volontà, le forze di polizia – e non i servizi inguaiati dalla P2 – si fossero adoperati per la cattura di Freda e Ventura, a suo tempo fuggiti uno dopo l’altro dal soggiorno obbligato. Come ministro dell’Interno dell’epoca è giusto che ricordi quell’esemplare azione nei confronti dei responsabili della strage di piazza Fontana.
I servizi segreti italiani, quelli dei depistaggi e dei collegamenti con i gruppi degli stragisti, avevano rapporti diretti con gli Stati Uniti.
Certamente, non è affatto da escludere. In ogni caso, credo che sia merito storico della Dc di avere collocato e mantenuto l’Italia nel campo occidentale.
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