Delrio non ha ancora capito il favore fatto alla ’ndrangheta
Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, ha perso una grande occasione quando il 23 ottobre ha accettato di comparire davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Ha spiegato come mai, da sindaco di Reggio Emilia, nel 2009 è andato in visita a Cutro, in Calabria, in occasione della festa del Santissimo Crocifisso. Cutro è il paese da cui proviene la famiglia di ’ndrangheta di Nicolino Grande Aracri, condannato con altre 118 persone al processo “Aemilia” sugli insediamenti mafiosi in Emilia-Romagna. Le motivazioni della sentenza, depositate nel luglio scorso, stigmatizzano i politici emiliani che sono andati a fare campagna elettorale a Cutro, per conquistare i voti delle comunità calabresi in Emilia.
Alla Commissione antimafia, Delrio ha risposto di non essere andato in Calabria per fini elettorali, ma per rispondere all’invito degli amministratori di Cutro che avevano stretto un “patto di amicizia” con la città di cui era sindaco. “La macchina del fango non va alimentata”, ha scandito il parlamentare, “la mia visita a Cutro è stata una visita istituzionale di 24 ore. Dal 1995 c’è un patto di amicizia tra Reggio Emilia e Cutro. Io sono andato a rappresentare la mia città e la sera prima sono andato in chiesa, ero in luoghi pubblici”.
Gli ha fatto eco Franco Mirabelli, capogruppo Pd in Commissione antimafia: “La richiesta di audizione di Delrio non ha alcun fondamento se non una ragione strumentale, dato che si voterà in Emilia Romagna. Delrio risulta del tutto estraneo a qualunque di queste vicende”.
Certo, Delrio non è mafioso. Non è intervenuto – a differenza di altri – contro il prefetto Antonella De Miro, colpevole di sfornare misure di prevenzione (le interdittive) contro le imprese dei clan. Eppure la sua audizione all’Antimafia dimostra che, dieci anni dopo quei fatti, non ha ancora capito come si stringono i rapporti tra mafia e politica. A lui e a Mirabelli ci permettiamo di suggerire la lettura di un libro: Rosso mafia. La ’ndrangheta a Reggio Emilia, del sociologo Nando dalla Chiesa e della ricercatrice Federica Cabras, edito da Bompiani.
Spiega come sia stato possibile che in una regione d’Italia, “nota nel mondo per la sua buona qualità della vita, per la civiltà della sua organizzazione sociale, per le scuole materne ed elementari modello d’eccellenza mondiale”, si sia impiantata una mafia feroce e vorace. Come si siano confrontate “due civilizzazioni”, “il socialismo emiliano e il modello cutrese”, con la vittoria di quest’ultimo. Delrio non ha capito come gli insediamenti mafiosi al Nord si nutrano di segnali culturali più ancora che di minacce e di violenza. Non ha capito come la presenza in una chiesa, la partecipazione a una processione, l’omaggio al Santissimo Crocifisso di Cutro siano stati un segnale fortissimo per i clan di ’ndrangheta e per le comunità calabresi in Emilia. Non ha capito che oltre al piano giudiziario, sul quale nulla gli è imputato, esiste un piano culturale, delicatissimo e cruciale. Delrio – che è persona perbene – è rimasto vittima di sottovalutazioni e di trame che si sono consumate a sua insaputa.
È l’eterna ambiguità dei mafiosi al Nord che ripetono, a Reggio Emilia come a Buccinasco, che non bisogna criminalizzare le imprese calabresi accusandole di essere mafiose. Dieci anni dopo, Delrio avrebbe potuto dare un bel segnale d’inversione di tendenza. Avrebbe potuto dire: “Ho sbagliato. Ho sottovalutato la forza dei simboli. In buona fede ho compiuto atti pubblici che sono stati usati, contro la mia intenzione, per rafforzare piani criminali. Ho capito e ora lo dico forte ai miei colleghi, di destra e di sinistra: non sottovalutate i segnali culturali”. Sarebbe stato coraggioso. Sarebbe stato rivoluzionario. Non è andata così.
Nella foto: l’ex sindaco di Cutro, Salvatore Migale, con l’ex sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio