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Non solo la coppia dell’acido: Marcello Musso, il “pm contadino”

Non solo la coppia dell’acido: Marcello Musso, il “pm contadino”
Si definiva “pm contadino”, Marcello Musso. Era un antieroe, un magistrato a cui piaceva lavorare tanto e in silenzio, senza i vezzi di protagonismo di qualche suo collega. È morto il 16 agosto, durante uno dei pochi giorni di vacanza che si concedeva, falciato da un’auto mentre andava in bicicletta sulla strada che collega Agliano e Costigliole d’Asti, nel suo Piemonte che gli aveva lasciato l’inflessione nel parlare e l’etica del dovere.

Sguardo dolce e ironico, puntiglioso, preciso, scriveva disegnando la sua calligrafia minuziosa su mille post-it e appoggiando la penna a un piccolo righello. Amava la sua toga e il suo lavoro, tanto da passare più ore nel suo ufficio che nella sua casa milanese. Ora la sua porta, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, è segnata dai fiori dei colleghi e dai biglietti lasciati da chi gli voleva bene.

Non era un magistrato da dichiarazioni roboanti, da pose d’eroe. Era finito sui giornali per l’inchiesta sulla “coppia dell’acido”, Martina Levato e Alexander Boettcher, i due fidanzati che avevano preso a sfigurare tutti gli ex della ragazza. L’indagine finì a lui perché era di turno in quella notte di dicembre del 2014 in cui la polizia arrestò Boettcher che inseguiva la sua ultima vittima con un martello.

Nei mesi seguenti, Musso si sentì amareggiato per l’interesse che giornali e giornalisti dimostravano per questa storia torbida, mentre così poca attenzione avevano concesso ad altre sue indagini, ben più pesanti, su organizzazioni mafiose e traffici di droga.

Sempre rigoroso, ma anche sempre umano. Ottenne condanne altissime per i due, ma quando seppe che Martina Levato aspettava un bambino, le regalò un paio di scarpette per il neonato. E poi si attivò perché il figlio, nato quando Martina era già in carcere, fosse affidato e adottato da una coppia che gli potesse garantire una vita serena.

Aveva scelto di fare il magistrato a Palermo, come ha ricordato ai suoi funerali l’allora procuratore Gian Carlo Caselli: “In quel tempo la democrazia italiana traballava per l’offensiva di Cosa nostra e se ha retto è perché molte persone, tra magistrati, forze dell’ordine e società civile, hanno alzato un muro. Marcello è stato un caposaldo di quel muro”.

Poi è passato alla Procura Milano, dove per anni ha fatto il suo lavoro in silenzio. Ha condotto l’inchiesta “Pavone”, sul traffico di droga tra Quarto Oggiaro, la Brianza e Mariano Comense. Ha indagato sull’omicidio di Francesco Carvelli, figlio di uno dei boss di Quarto Oggiaro, ucciso nell’estate 2007, sul clan Crisafulli e sul latitante Francesco “Gianco” Castriotta. Ed è riuscito a chiudere – senza alcun clamore mediatico – un’indagine pesantissima su vecchi omicidi di mafia a Milano, ottenendo anche la condanna all’ergastolo di Totò Riina e di altri capi di Cosa nostra.

“Era un lavoratore instancabile, non si fermava mai”, testimonia uno dei massimi magistrati antimafia di Milano, Alberto Nobili. Girava per il palazzo di giustizia quasi sempre in toga. “Quello era per lui il suo abito naturale”, ricorda l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, che ha partecipato ai funerali insieme al procuratore di Milano Francesco Greco e ai colleghi Alberto Nobili, Laura Barbaini, Carmen Manfredda, Anna Maria Fiorillo.

“È stato una grande persona, vissuta nel più assoluto e dignitoso anonimato”, ha ricordato il parroco di San Giacomo Maggiore di Agliano Terme, dove ancora vive la sua vecchia madre. Ci mancherà il sorriso ironico e mansueto con cui accoglieva i cronisti che bussavano alla porta del suo ufficio.


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Il Fatto quotidiano, 22 agosto 2019
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