Francesco Saverio Borrelli, il direttore d’orchestra di Mani pulite
Francesco Saverio Borrelli è il capo che ogni magistrato fedele alla Costituzione e appassionato del suo lavoro avrebbe voluto avere. Prima e dopo di lui abbiamo visto capi che frenano, insabbiano, ammorbidiscono, narcotizzano, bloccano, strappano le indagini ai loro sostituti procuratori. Oppure semplicemente tirano a campare, predicando con l’esempio quel quieto vivere che tiene lontani i guai e favorisce carriere tranquille.
A lui è toccato invece in sorte di guidare la più straordinaria esperienza giudiziaria della storia repubblicana, l’inchiesta di Mani pulite. Appassionante e drammatica, applaudita e attaccata.
Borrelli era il fusibile che ha permesso alla corrente di passare, al sistema di funzionare. A fare le indagini era quel gruppo composito ed effervescente che aveva scelto e messo a lavorare insieme ad Antonio Di Pietro. C’erano Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, poi Francesco Greco, Ilda Boccassini, Paolo Ielo, coordinati dal procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio.
Erano loro a interrogare gli indagati, sentire i testimoni, guidare la polizia giudiziaria, analizzare i documenti, cercare i conti correnti, fare le rogatorie all’estero. Ma era lui a garantire che, all’interno del Palazzo, lo strano cocktail di personalità e competenze riuscisse a lavorare insieme e, all’esterno, a proteggere il pool da attacchi e trappole.
E pensare che, all’inizio, Mani Pulite era nata da una forzatura di Di Pietro. Borrelli era scettico sulla possibilità di allargare la piccola indagine nata dall’arresto del socialista Mario Chiesa, il “mariuolo” beccato con la tangente in mano. Di Pietro – che sulla corruzione dei partiti a Milano stava lavorando da tempo, senza grandi risultati – questa volta finse di dimenticarsi di depositare gli atti che avrebbero portato a processo il solo Chiesa e scoprì, giorno dopo giorno, tangente dopo tangente, il sistema che reggeva la Prima Repubblica.
Borrelli fece allora quello che il suo ruolo e la sua fedeltà alla Costituzione gli indicava: garantire che i suoi sostituti sviluppassero l’indagine, in autonomia e indipendenza dai poteri politici ed economici.
Era nato a Napoli il 12 aprile 1930, figlio e nipote di magistrati. Trasferito con la famiglia a Firenze, studia al conservatorio – la musica è sempre stata la sua grande passione – e si laurea in Giurisprudenza con una tesi su “Sentimento e sentenza”, relatore Piero Calamandrei. Nel 1955 entra in magistratura. Negli anni Sessanta è tra i fondatori di Magistratura democratica, benché in seguito abbandoni la vita di corrente.
La sua carriera si svolge tutta a Milano, giudice civile, giudice penale, sostituto procuratore. Nel marzo 1988 arriva alla guida della Procura della Repubblica. E nel 1992 diventa il garante e lo scudo di Mani pulite, finché lascia il suo posto a D’Ambrosio e diventa procuratore generale. È in questa veste che nel 2002, mentre la politica cerca la rivincita sui magistrati e Silvio Berlusconi cerca di varare le sue leggi ad personam, conclude il suo discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario con un appassionato appello all’indipendenza della magistratura: “Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave”.
Andato in pensione, ha sempre resistito alla tentazione di fare il reduce o il nostalgico. Niente interviste, zero amarcord, mai recriminazioni. Ha accettato però con entusiasmo nuovi incarichi: capo dell’ufficio indagini della Federazione italiana gioco calcio, nel 2006, chiamato dal commissario straordinario della Figc, Guido Rossi, dopo il dirompente scandalo di Calciopoli. E poi presidente del Conservatorio di Milano, lui che non ha mai rinunciato, finché la salute gliel’ha permesso, alla prima e alle recite della Scala.
Durante Mani pulite, ha sempre tenuto la politica e i politici fuori dalla porta. Impossibili, con lui, le pressioni. Sempre rispettoso delle istituzioni, ha risposto al capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, le quattro-cinque volte che lo ha chiamato prima di scelte difficili. Come quando il presidente ha deciso di dare a Giuliano Amato – e non a Bettino Craxi, come la politica si aspettava – l’incarico di formare nel giugno 1992 il nuovo governo. O come dopo il varo del decreto Conso, nel 1993, che tentava di depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti: “Non attribuite a noi quello che state facendo voi”, dice Borrelli ai politici in quella occasione. E il decreto salta.
Alla vigilia delle elezioni politiche che saranno poi vinte da Berlusconi, si rivolge ai candidati augurandosi che la politica si riformi prima dell’arrivo dei magistrati: “Se hanno scheletri nell’armadio, li tirino fuori prima che li troviamo noi”. Non lo ascoltano. Ormai è il 1994, “l’acqua non arriva più al mulino”, denuncia in un’intervista. La politica è tornata alla riscossa e anche parte della società civile ha smesso di inneggiare a Mani pulite.
“Finché si era trattato di colpire l’alta politica e i grandi personaggi dei partiti che cominciavano a stare sullo stomaco a tutti, non c’erano state grandi reazioni, ma allorché si è andati un po’ oltre ed è apparso chiaro che il problema della corruzione in Italia non riguardava solo la politica”, confessa, “allora la gente ha cominciato a dire: ‘Adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, abbiamo scalzato la vecchia classe politica, adesso fateci campare’”.