Uno stilista di successo. Un palazzo di prestigio a Milano su cui ha messo gli occhi John Elkann. Una spietata guerra in famiglia. Due grandi studi legali. Il trionfo e infine la caduta. Sono gli ingredienti della storia di Andrea Campagna, figlio di Gianni Campagna, uno degli ultimi sarti italiani noti in tutto il mondo, partito dalla sua Sicilia per conquistare Milano.
Era l’uomo che vestiva Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia, Aristotele Onassis e Ranieri di Monaco, oltre ai divi, da Sophia Loren a Sharon Stone, da Gary Cooper a Pierce Brosnan. L’icona del suo successo era palazzo Bernasconi, all’angolo tra corso Venezia e via Palesto, a Milano, su cui campeggiava il marchio delle forbici aperte sormontate dalla C. È morto nel novembre 2017, a 74 anni. I suoi tre figli, Andrea, Angelo e Virginia, si sono combattuti in una guerra feroce per l’eredità. Ne è uscito sconfitto – “per ora”, dice – Andrea, l’unico che lavorava in azienda con il padre. “È ancora pendente un giudizio che potrebbe ribaltare la situazione”. Comunque sia, adesso la vuole raccontare lui, la storia di palazzo Bernasconi, un “trophy asset”, uno degli investimenti immobiliari di maggior prestigio a Milano, dunque in Italia.
“Il culmine del successo di mio padre è arrivato negli anni Novanta. Gianni Campagna vola tra Milano e gli Stati Uniti, veste i divi, è celebrato dalla stampa internazionale”. Compra l’azienda di Caraceni, il sarto che era stato il suo maestro, e a Milano issa le sue insegne su palazzo Bernasconi, 4 mila metri quadrati in cui pone il suo quartier generale.
Con la svolta del millennio, però, il vento gira. “Dopo l’attentato delle Torri gemelle il mercato Usa si chiude”, racconta Andrea. “La crisi si fa sentire pesantemente. Anche perché va molto male la fabbrica che avevamo aperto a Fidenza. In pochi anni, i conti vanno in rosso, il debito aumenta. Ma la situazione resta sotto controllo, perché ci salva il palazzo di via Palestro”.
Viene stipulato un contratto di leasing per 15,5 milioni di euro con il Banco popolare. Una parte del palazzo viene affittata (a Banca Rothschild e al grande studio legale americano Paul Hastings): “Con il ricavato degli affitti paghiamo il leasing della parte che continuiamo a occupare. Va tutto bene fino al 2007. Poi arriva la grande crisi”. Gli inquilini se ne vanno e così due piani del palazzo restano vuoti. Nel 2013 il leasing viene risolto e l’edificio è messo in vendita. “Si fa vivo il socio americano di mio padre, Rick Adams, un personaggio che prima non era mai intervenuto nella società. Ci fa due cause, gestite dal grande studio internazionale Dla Piper, rappresentato in Italia dall’avvocato Federico Sutti. Noi ci facciamo difendere dallo studio Erede Bonelli Pappalardo. La giudice che presiede il collegio, Elena Riva Crugnola, ci dà per due volte ragione”.
Ma intanto la situazione si complica. “Io avevo assunto il ruolo di amministratore delegato della società di famiglia e, viste le difficoltà, avevo cercato di fare tagli e di rendere rigorosa la gestione, anche in famiglia. Risultato: scontento mio fratello e mia sorella. Così succede che l’avvocato Angelo Bonetta, dello studio Erede Bonelli Pappalardo, alle mie spalle si accorda con mio fratello Angelo e mi scarica. Il loro piano è: vendere il palazzo. Il mio, invece, è: continuare l’attività dell’azienda. Mi tolgono la carica di amministratore e le quote della società. La giudice Riva Crugnola comincia a darmi torto. L’avvocato Sutti, che patrocinava il socio americano e che era sempre stato sconfitto in giudizio, intanto è passato a un altro grande studio internazionale, Dentons, il primo al mondo. Ed è proprio Dentons che assume il ruolo di advisor legale per la vendita di palazzo Bernasconi. Il compratore – per 35 milioni, una cifra che io giudico bassa – è la società Merope”.
Merope Asset Management è un club che riunisce più investitori, 18 family office italiani e stranieri, ed è guidato dal genovese Pietro Croce, che controlla il 70 per cento, affiancato da John Elkann (10 per cento attraverso la fiduciaria Fidersel) e dal numero uno di Credit Suisse in Italia, Federico Imbert (con un altro 10 per cento).
Andrea Campagna, sconfitto, continua a sperare che l’ultimo giudizio ancora pendente possa restituirgli le quote della società e capovolgere la sua sorte. Intanto protesta: “I grandi studi legali si sono accordati alle mie spalle per realizzare l’affare milionario della vendita”.