Altro che vizio di forma e reato “a fin di bene”. Così Sala ha falsato gli atti
Condannato. Ma per un reato commesso “a fin di bene”. A onore e gloria di Milano e dell’Expo. È questa la reazione prevalente alla sentenza che ha comminato 6 mesi di reclusione (convertiti in una pena pecuniaria di 45 mila euro) a Giuseppe Sala, commissario dell’esposizione universale 2015 e poi sindaco di Milano. Per falso ideologico: per aver firmato il 31 maggio 2012, nella sua casa di Brera, due atti che cambiavano due commissari della più importante gara d’appalto Expo, quella della “piastra”, valore 272 milioni di euro. Ma la data scritta sui due documenti era antecedente e falsa: 17 maggio 2012.
I due commissari, sostituiti da due supplenti grazie ai documenti con la data falsa, erano stati indicati dai manager attorno a Sala come probabilmente incompatibili. Avrebbero dovuto essere cambiati ricominciando da capo la procedura, ma questo avrebbe allungato i tempi e messo a rischio l’apertura di Expo, il cui cronoprogramma era in grave ritardo. Sala temeva di non riuscire ad aprire i cancelli della grande fiera nel giorno previsto, il 1° maggio 2015. Ecco dunque che furono forzate le procedure – in questo come in altri casi – e falsificati i due atti che ora costano a Sala la prima condanna mai inflitta a un sindaco di Milano in carica.
Si può commettere un reato “a fin di bene”? La Procura di Milano, allora guidata da Edmondo Bruti Liberati, decise di non indagare Sala, considerando la retrodatazione dei due atti “un falso innocuo”. Erano i mesi in cui Bruti (in contrasto con il suo aggiunto Alfredo Robledo), considerava necessario trattare Expo con la “sensibilità istituzionale” per cui fu poi ringraziato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Fu la Procura generale, per iniziativa di Felice Isnardi, a giudicare “inerte” la Procura e ad avocare le indagini sull’esposizione universale. Fu sconfitta nel 2018, quando Sala fu prosciolto dal reato di abuso d’ufficio per aver affidato senza gara alla Mantovani spa la fornitura degli alberi di Expo, che furono poi pagati il triplo del loro valore.
Ha vinto questa volta, con i sostituti procuratori generali Massimo Gaballo e Vincenzo Calia che sono riusciti a veder convalidate le loro ipotesi d’accusa. I giudici Paolo Guidi, Angela Minerva e Chiara Valori hanno riconosciuto a Sala, oltre alle attenuanti generiche, la ben più rara attenuante di aver agito “per motivi di particolare valore sociale”. La condanna è mite (6 mesi) e non fa rischiare l’intervento della legge Severino, che per questo reato fa scattare la decadenza da sindaco, ma solo per condanne definitive sopra i 2 anni. Tra quattro mesi, del resto, a mettere una pietra sulla vicenda arriverà la prescrizione (a cui peraltro Sala può rinunciare, se vuole dimostrare la sua innocenza).
Ma davvero si possono commettere reati “a fin di bene”? Bastassero le buone intenzioni, sarebbero del tutto inutili i codici, i giudici e il diritto. Gli psicologi e i preti si sostituirebbero ai tribunali. E chiunque, anche il peggiore dei criminali, potrebbe attribuirsi ottime motivazioni per i suoi comportamenti. Invece è certo che Sala abbia mentito, quando ha dichiarato di non essersi accorto di aver firmato due atti falsi, o almeno è certo che abbia agito con leggerezza non degna di un manager considerato meritevole di essere premiato con la candidatura a sindaco di Milano. “Faremmo un grave torto al dottor Sala”, ha detto in aula il Pg Gaballo, “se gli attribuissimo una tale negligenza e superficialità”.
Di certo il sindaco ha ripetuto la scena in voga ai tempi dei politici della Prima Repubblica, quando davanti ai giudici, il 15 aprile 2019, ha ripetuto per dieci volte “non ricordo”. Ha dichiarato di non essersi accorto “della retrodatazione dei verbali”: “Ho firmato migliaia di atti, non lo ricordo come uno dei passaggi più rilevanti della storia di Expo”. “Non ricordo quando e dove ho messo la firma”. “Non ricordo (la data sugli atti, ndr), per me l’importante era la parte sui sostituti commissari, non ho guardato la data”. Ha firmato due volte? “Non lo ricordo”. Chi portò i documenti da firmare? “Non lo ricordo”.
“Si è sacrificato per il bene di Milano”, dicono i suoi sostenitori. È inciampato in “un vizio di forma che non ha prodotto alcun effetto”: ma la retrodatazione è sostanza, non forma. Quanto agli effetti, ci sono eccome. E sono clamorosi: Sala sapeva che l’insuccesso di Expo avrebbe determinato la fine della sua carriera; il successo (almeno autoproclamato) lo avrebbe invece premiato: gli è valso infatti la poltrona di sindaco di Milano (e domani, chissà, l’ingresso a Palazzo Chigi).
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