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Mani pulite in Brasile: “Le prove sono solide, altro che complotto”

Mani pulite in Brasile: “Le prove sono solide, altro che complotto”

Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, è stata un complotto per impedire a Lula di tornare presidente e riportare la destra al governo? È quanto sostiene un’inchiesta giornalistica del sito Intercept, che ha potuto consultare materiali inediti, e-mail private e messaggi vocali che ha promesso via via di rendere pubblici. Il Fatto quotidiano ne discute con Rodrigo Chemim, magistrato del pubblico ministero dello Stato brasiliano di Paraná, professore di procedura penale all’Università Positivo di Curitiba, la città del giudice Sergio Moro dove l’inchiesta Lava Jato è nata, e autore del libro Mani pulite e Lava Jato: la corruzione si guarda allo specchio, che confronta le inchieste sulla corruzione avviate in Italia e in Brasile.

È attendibile l’inchiesta di Intercept?

È troppo presto per valutare l’impatto complessivo dei messaggi che il sito di Intercept sta pubblicando. Gli avvocati e i sostenitori dell’ex presidente Lula hanno sempre sostenuto, anche a livello internazionale, che l’inchiesta giudiziaria fosse una persecuzione politica, un “colpo di stato”, o un “complotto per impedire a Lula di tornare alla presidenza del Brasile”. Ma le prove raccolte e presentate in tribunale contro di lui nel caso dell’appartamento che ha ricevuto in regalo da un imprenditore non lasciano molto spazio per supportare questa versione. Queste prove sono state valutate, dopo la sentenza del giudice Moro, da altri otto magistrati in due diverse istanze della giustizia brasiliana (Trf e Stj) che hanno all’unanimità confermato la condanna di Lula. C’è anche una nuova condanna per altri 12 anni di reclusione, decisa da un’altra magistrata, Grabriela Hardt, che ha sostituito Moro nel caso del sito di Atibaia. E ci sono altre otto cause penali contro Lula per vari reati di corruzione e riciclaggio di denaro che saranno affrontate da altri magistrati. Difficile che la diffusione di conversazioni telefoniche, chat o e-mail possa ora ribaltare la situazione.

Le accuse di Intercept sono: contatti privati tra il pm Deltan Dallagnol e il giudice Sergio Moro prima del processo; suggerimenti all’accusa da parte del giudice Moro, prima che questi processi Lula; valutazioni politiche dei magistrati contro Lula e il suo partito che dimostrano la loro non imparzialità.

Da ciò che è già diventato pubblico, mi sembra precipitoso ipotizzare una collusione illegittima tra il giudice e la pubblica accusa. Contatti ​tra giudici e pubblici ministeri prima del processo, cioè in fase di indagini preliminari, sono normali nel modello brasiliano in cui non esistono Gip e Gup (giudici delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare) e in cui lo stesso giudice del dibattimento interviene anche nella fase preliminare. In Brasile, il giudice parla da subito sia con il pm per le accuse, sia con gli avvocati per le difese.

I giudici avrebbero anche impedito a Lula, già condannato, di rilasciare un’intervista che avrebbe potuto rilanciare il candidato della sinistra e far perdere le elezioni alla destra di Bolsonaro.

Non ho titoli per parlare a nome dei pm di Lava Jato, ma i loro commenti in privato che sconsigliano di permettere un’intervista di Lula in carcere potrebbero essere legati al timore che l’inchiesta sulla corruzione potesse essere bloccata da un nuovo eventuale governo del Pt di Lula. Il candidato di Lula, Fernando Haddad, aveva in programma un cambio costituzionale per mettere un freno alle possibilità investigative del pubblico ministero e far tornare il pm subordinato al potere esecutivo, come prima della Costituzione del 1988. E Ciro Gomes, candidato della sinistra che al secondo turno ha fatto confluire i suoi voti su Haddad, a proposito di Lava Jato aveva dichiarato che “era necessario far tornare la Procura nella sua scatola”. Naturale, in quel contesto, che i pm, nelle conversazioni private, dicessero di non volere l’elezione di Haddad.

Il giudice Moro si è presentato come arbitro imparziale, ma tra il 2015 e il 2017 parla con l’accusa e suggerisce le mosse per incriminare Lula.

Per il pubblico europeo può sembrare strano, ma nella tradizione giuridica brasiliana è normale che i giudici parlino anche con pm e avvocati. Questo è così normale che c’è un termine coniato per definire questa pratica: “appello di orecchio”. Su questo ci sono articoli scritti da avvocati di fama e giudici brasiliani, che insegnano ai giovani avvocati come comportarsi in queste conversazioni riservate con il giudice. È anche naturale che lo sviluppo della tecnologia, l’urgenza e la complessità del caso Lava Jato abbiano fatto diventare virtuali e telefoniche queste conversazioni che un tempo erano “all’orecchio”. Se si è travalicato, passando da conversazioni procedurali, legittime nell’ordinamento brasiliano, a fatti che compromettono l’imparzialità del giudice, allora scatta la nullità degli atti svolti dal giudice. Alcuni ministri del Supremo, la Corte costituzionale brasiliana, stanno già anticipando pubblicamente giudizi nel merito: il ministro Gilmar Mendes, per esempio, ha dato interviste commentando le intercettazioni e dicendo che Moro sarebbe stato “il capo” di Lava Jato e il pm Deltan uno “sciocco” che otterrà il risultato di “far annullare la condanna di Lula”. Ma alcune interpretazioni delle conversazioni pubblicate sembrano eccessivamente allarmiste: per esempio, quando il giudice Moro indica al pm il nome di una persona che potrebbe testimoniare all’inchiesta, passa soltanto una notizia di reato che ha ricevuto dal suo ufficio. Questo è assolutamente normale e capita ogni giorno a tutti i giudici brasiliani. Lo stabilisce l’articolo 40 del codice di procedura penale brasiliano, che prevede che se il giudice viene a conoscenza di reati, deve trasmettere l’informazione al pubblico ministero.

Vale la pena di ricordare che il caso Lava Jato, come Mani Pulite in Italia, era diventato così noto nel Paese che la gente cercava il giudice per trasmettergli informazioni. Poiché il giudice non può indagare, Moro ha girato le notizie al procuratore. Insomma, per ora non vedo violazioni dell’imparzialità. Ma la prudenza consiglia, per un giudizio definitivo, di attendere la pubblicazione di tutto il materiale promesso da Intercept. Già ora alcuni dialoghi sembrano a rischio: è il caso della richiesta fatta dal giudice Moro ai pm di criticare sulla stampa le contraddizioni di Lula nel suo interrogatorio. Obiettivo: depotenziare il discorso fatto in piazza da Lula dopo quell’interrogatorio, definito da Moro “spettacolino della difesa”. La richiesta di Moro ai pm può essere interpretata come semplice preoccupazione per evitare letture sbagliate della sua attività di giudice; oppure come consiglio alla Procura. In questo secondo caso violerebbe l’imparzialità e potrebbe implicare l’annullamento del processo.

Lava Jato si è presentata come grande inchiesta contro la corruzione politica, a destra e a sinistra. Ma gli unici effetti politici che ha raggiunto sono stati quelli di impedire la candidatura di Lula alla presidenza del Brasile e di far vincere Bolsonaro.

Ci sono 35 partiti politici in Brasile. Di questi, 33 sono obiettivi d’inchiesta di Lava Jato. Anche i nemici politici dell’ex presidente Lula, come il deputato federale del Psdb Aecio Neves, sono indagati e perseguiti penalmente. Aecio, che era un candidato alla presidenza del Brasile nel 2014 ed era stato battuto per pochi voti da Dilma, è politicamente distrutto e le sue speranze di diventare presidente ora sono ridotte a zero. Anche Eduardo Cunha, ex deputato federale del Pmdb considerato il grande avversario di Dilma al Congresso per aver guidato il procedimento di impeachment contro la presidente, è stato condannato dal giudice Moro a 15 anni e 4 mesi di carcere ed è stato imprigionato dall’ottobre 2016. L’ex presidente Michel Temer, anch’egli del Pmdb, considerato uno dei capi di quello che Lula e Dilma chiamano “colpo di stato”, è stato arrestato due volte da Lava Jato dopo aver lasciato la presidenza. Negli ultimi tre anni di Lava Jato, sono stati arrestati cinque ex governatori dello Stato di Rio de Janeiro. Due di loro sono ancora in carcere: Sergio Cabral e Luiz Fernando Pezão, Pmdb. Quest’ultimo è stato arrestato mentre era ancora in carica come governatore, cosa che non ha precedenti nella storia del Brasile. Nello stato del Paraná, l’ex governatore Beto Richa del Psdb, il partito nemico del Pt e di Lula, è stato arrestato tre volte nell’ultimo anno e deve rispondere di numerose accuse penali avviate da Lava Jato.

Nelle ultime elezioni c’è stato un rinnovo del Congresso nazionale mai visto nella storia del Brasile: dei 54 seggi, 46 sono stati occupati da persone elette per la prima volta. Dei quattro senatori che hanno cercato la rielezione, tre non sono riusciti a farcela. Alla Camera dei deputati il ​​rinnovo nelle ultime elezioni del 2018 si è avvicinato al 50 per cento. L’attenzione dei media internazionali si concentra molto sul caso di Lula, ma le conseguenze politiche negative sono state subite da tutti i leader politici di diverse ideologie e partiti. Poi è successo in Brasile qualcosa di simile a ciò che è capitato dopo Mani pulite in Italia: Silvio Berlusconi ha approfittato del vuoto del potere ed ha vinto presentandosi come “estraneo” alla politica; da noi ne ha approfittato Bolsonaro, facendo un discorso simile. Se ci guardiamo alle spalle, nessuno aveva preso sul serio la candidatura di Bolsonaro fino a tre mesi prima delle elezioni, tranne un gruppetto di sostenitori quasi fanatici. Eppure ha finito per essere eletto, più che per i suoi meriti, come conseguenza di un rifiuto generale del Pt e della mancanza di alternative al secondo turno delle elezioni.

Il giudice Sergio Moro, dopo aver condannato Lula, è diventato ministro del governo Bolsonaro. In Italia i pm di Mani pulite Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo rifiutarono nel 1994 di diventare ministri del primo governo Berlusconi.

Mi rendo conto che non era appropriato saltare improvvisamente dalla magistratura alla politica. Ma posso capire quello che è successo al giudice. Proprio a causa della sorprendente somiglianza che esiste tra Mani Pulite e Lava Jato, sia per quanto riguarda la provenienza del denaro pubblico speso male, sia per la sua destinazione ai partiti politici, sia per le reazioni giuridiche e politiche, la paura tra noi brasiliani è che il nostro Paese possa seguire lo stesso destino dell’Italia: come è noto, con la vittoria di Berlusconi, il Parlamento italiano ha approvato numerose leggi che hanno praticamente svuotato i risultati di Mani pulite. I politici italiani hanno depenalizzato reati, ridotto i tempi di prescrizione, creato nuove regole probatorie che hanno annullato processi, approvato leggi di amnistia. La paura che possa succedere lo stesso in Brasile ha spinto il giudice Moro ad accettare il ministero della Giustizia, dove finisce per essere un’elica che va nella direzione opposta a quella italiana. Si occupa di progetti che aumentano le possibilità di combattere la corruzione, rende difficile creare un clima favorevole all’approvazione di leggi contrarie, cerca di evitare che il Parlamento brasiliano decida di neutralizzare, attraverso la via legislativa, i risultati di Lava Jato.

L’inchiesta di Intercept che cosa sta insegnando al Brasile?

Sta suggerendo che sarebbe utile una riforma della legge processuale penale brasiliana. Per dividere, come già in Italia, il ruolo del giudice da quello del gip e del gup, per evitare la contaminazione psicologica del magistrato. Il giudice delle indagini preliminari deve emettere giudizi sugli imputati anche prima del dibattimento e questo gli impone di formarsi una comprensione del caso anche prima dell’inizio del processo. Così non ha modo di evitare un preconcetto riguardo a tutto ciò che sarà poi discusso in tribunale. Meglio avere due giudici diversi, come in Italia. A questo punto, una riforma qui in Brasile mi sembra urgente. Eviterebbe per il futuro discussioni come quella che stiamo facendo oggi.

Nella foto: il giudice Sergio Moro con alla sua destra Gianni Barbacetto, in occasione della pubblicazione in Brasile nel 2016 di “Mani pulite, la vera storia”.

Il Fatto quotidiano, 20 giugno 2019 (versione integrale)
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