È un accurato lavoro di chirurgia giuridica quello che salverà Umberto Bossi e suo figlio Renzo dalle condanne ricevute in primo grado a Milano e dal processo d’appello che potrebbe confermarle. È un lavoro di cesello fatto dalla Lega di Matteo Salvini, con la sua querela nei confronti dell’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito. È accusato di truffa ai danni dello Stato, insieme a Umberto Bossi, per aver ricevuto, per conto della Lega, milioni di finanziamento pubblico sulla base di false attestazioni. Per questo è stato processato a Genova. La sentenza d’appello ha condannato Belsito a 3 anni e 9 mesi e Bossi a 1 anno e 10 mesi (ma la prescrizione lo salverà). Come conseguenza patrimoniale, la Lega dovrà restituire i 49 milioni di euro incassati grazie a carte false, anche se lo potrà fare in comode rate di 600 mila euro l’anno in 76 anni.
Belsito e i Bossi sono però sotto processo anche a Milano, con un’altra accusa, appropriazione indebita, per aver usato soldi pubblici per scopi personali: 2,4 milioni Belsito, 208 mila euro Umberto Bossi (per cure mediche, ristrutturazione della casa di Gemonio, multe, abbigliamento, gioielli…) e 145 mila il figlio Renzo (per multe, assicurazione auto, acquisto di una “laurea” in Albania…). In primo grado, a Milano erano arrivate condanne a 2 anni e 6 mesi per Belsito, 2 anni e 3 mesi per Umberto, 1 anno e 6 mesi per Renzo. Ma nel 2017 una legge (Gentiloni-Orlando) voluta dal Pd ha reso l’appropriazione indebita perseguibile solo se chi è danneggiato presenta querela: in questo caso, la Lega.
Il partito ha dunque in mano la chiave del processo d’appello. Se non avesse presentato querela, il processo sarebbe morto. Se avesse presentato una querela per tutte le accuse, sarebbero stati processati sia Belsito sia i Bossi. Ha scelto una via intermedia, che salva il fondatore e suo figlio: ha querelato soltanto Belsito e soltanto per i capi d’imputazione in cui non sono coinvolti in concorso i Bossi. Sono 297 i capi d’imputazione, un lunghissimo elenco di pagamenti a favore degli imputati con soldi del partito. I primi 20 sono a carico di Renzo, in concorso con il padre e l’ex tesoriere. Dal numero 70 all’85 sono di Umberto, in concorso con il tesoriere. Dall’86 al 297 riguardano il solo Belsito.
Ebbene, i legali della Lega hanno presentato querela soltanto per questi ultimi. “È convinzione di tutti i leghisti che Bossi, se fosse stato in piena salute, non avrebbe permesso a Belsito di usare i soldi del Carroccio nel modo in cui li ha usati”, spiega l’avvocato di Bossi, Domenico Mariani. Ecco dunque il risultato che sarà ottenuto a gennaio, quando comincerà l’appello: Umberto e Renzo usciranno dal processo e decadranno le loro condanne in primo grado; per Belsito il processo si celebrerà, ma soltanto sulle imputazioni dalla 86 alla 297, senza quelle precedenti, in concorso con i Bossi. Più che una querela un capolavoro di ricamo. Per cercare di salvare un processo (e la faccia), garantendo, però, l’impunità a Umberto Bossi e al figlio Renzo, detto il Trota.
Da mesi negli ambienti della giustizia e della politica si parla della “gatta da pelare” che Salvini si era ritrovato tra le mani. Lui, come al solito, ostenta toni decisi, come il 19 maggio parlando con il cronista del Fatto: “Se ci sono le condizioni, e se davvero la Lega è danneggiata, allora compirò azioni legali. Garantito”. Tra il dire e il fare, però, il passo è lungo. Così martedì Salvini ha usato toni ben diversi: “Ho querelato solo Belsito e non i Bossi? Il perché chiedetelo ai miei legali”.
Bossi del resto non è stato certo cancellato dalla Lega: è ancora senatore e presidente del partito. Ed è un uomo che di Salvini, in politica dagli anni Novanta, conosce vita, morte e miracoli. “Meglio non andare alla guerra totale”, confidano persone molto vicine al vicepremier. Non solo: c’è tutta la partita – politica, oltre che giudiziaria – dei 49 milioni che i pm stanno cercando, ma che nelle casse della Lega non si trovano. Con Belsito che da anni ripete: “Io andandomene ho lasciato 40 milioni. Dopo le mie dimissioni nel 2012 sono entrati nelle casse del partito altri 19 milioni legati alle elezioni del periodo di Bossi… Soldi ce n’erano”. Finora Bossi non ha scaricato responsabilità su Salvini (mai indagato). E adesso il successore risparmia il patriarca. (Gianni Barbacetto e Ferruccio Sansa, Il Fatto quotidiano, 29 novembre 2018)