Spataro: dalla lotta al terrorismo a Salvini, ne valeva la pena
Due amici, in fasi diverse della sua vita, gli hanno posto la domanda delle domande. Il primo è Ago, maresciallo dei carabinieri protagonista di tante indagini sul terrorismo e sulla mafia: “Armando, ma ne valeva davvero la pena?”. Era una fredda giornata degli anni Novanta e Armando, il magistrato Armando Spataro, aveva appena terminato una commemorazione del collega Emilio Alessandrini, ucciso da Prima linea il 29 gennaio 1979. Il secondo è Ferdinando Pomarici, magistrato che Spataro considera, più che un collega, un fratello, e che nel 2008 gli manda un sms: “Siamo proprio sicuri di aver fatto bene a rischiare la pelle contro le Br?”.
Ago si riferiva all’ennesima, ricorrente stagione di attacchi della politica alla magistratura. Pomarici alle accuse ricevute di aver violato il segreto di Stato durante le indagini per il sequestro di Abu Omar. Più spiccio, oggi, Matteo Salvini, instancabile ministro dell’Interno, che pochi giorni fa a Spataro, che lo accusava di aver rivelato via tweet arresti che erano ancora in corso, ha risposto con un secco: “Gli auguro un futuro serenissimo da pensionato”. Ora il momento è arrivato. Domani, 14 dicembre 2018, sarà il suo ultimo giorno di lavoro nel luminoso ufficio di procuratore della Repubblica a Torino e la domanda diventerà definitiva: ne valeva la pena?
Per rispondere, e rispondere sì, Spataro ha scritto qualche anno fa un libro di oltre 600 pagine (Ne valeva la pena, Laterza). E oggi non ha cambiato idea. Spiega perché mostrando un poster che ha portato con sé in ogni cambio d’ufficio, prima a Milano e poi a Torino. Riproduce un quadro di Norman Rockwell con una bambina di colore di 6 anni, Ruby Bridges, che entra in una scuola della Louisiana scortata da quattro agenti federali: dovevano far rispettare la sentenza della Corte suprema che imponeva alla scuola “bianca” di accoglierla. “Il quadro”, spiega Spataro, “rappresenta la forza della legge e, insieme, l’orgoglio e il coraggio di chi, debole, solo alla legge si affida, come la bambina che incede a testa alta”.
Ci hanno provato in tanti a fargli cambiare idea, per tutta la sua carriera in cui ha incrociato il terrorismo, la mafia, la corruzione politica. Quelle di Spataro sono braccia rubate alla pallanuoto. Da giovane, a Taranto, dov’è nato, gioca nella Rari nantes di cui era anche l’allenatore. Adora Bob Dylan e la musica della West Coast, che fa ascoltare in un programma curato in una delle prime radio libere, Radio Taranto. Nel 1976, la svolta: decide di lasciare la radio, la moto e soprattutto la pallanuoto, da cui non riusciva proprio a staccarsi.
Sposa Rosalia e dopo aver vinto il concorso di magistratura sceglie, per non avere ripensamenti, la sede giudiziaria più lontana dalle piscine della Rari nantes: Milano. Viene catapultato nelle indagini che Pomarici svolgeva sui sequestri di persona. Poi il procuratore Mauro Gresti gli affida, giovanissimo, il ruolo di pm nel processo milanese contro il fondatore delle Br, Renato Curcio: per non esporre i magistrati più anziani e allora più noti come Emilio Alessandrini, Ferdinando Pomarici, Guido Viola…
I quegli anni vede cadere i colleghi Alessandrini e Guido Galli, sulla cui agendina telefonica era scritto: “Se mi succede qualcosa, telefonate ad Armando Spataro, tel n…”. Conduce le indagini – tra mille polemiche – sull’omicidio del giornalista del Corriere della sera Walter Tobagi. Con Pomarici e i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa scopre la base Br di via Monte Nevoso, con infinite diatribe sul memoriale di Moro trovato dodici anni dopo in un’intercapedine: “Falsi misteri”, commenta. Negli anni Novanta è tra i magistrati che a Milano indagano – finalmente – sulle organizzazioni mafiose che si sono saldamente insediate anche in Lombardia, nell’assordante silenzio della politica che ripete che “a Milano la mafia non c’è”.
Pm per tutta la sua carriera, magistrato d’indagine e d’accusa. Con una pausa: quella che tra il 1998 e il 2002 lo porta a Roma, al Consiglio superiore della magistratura, eletto nelle file del Movimento per la giustizia, il gruppo “eretico” di magistrati che aveva contribuito a fondare insieme a Giovanni Falcone. Prima aveva partecipato alle attività del circolo Società civile, creato a Milano da Nando dalla Chiesa con l’obiettivo di restituire alla società civile gli spazi che i partiti, di destra e di sinistra, avevano occupato nelle istituzioni, lottizzandole e inserendovi robuste dosi di corruzione.
L’indagine che gli cambia la vita è del 2003: a Milano scompare un imam egiziano, Abu Omar. Partono depistaggi e intossicazioni informative, ma Spataro e Pomarici scoprono che è un rapimento, una extraordinary rendition organizzata dall’amministrazione Usa e messa in atto da agenti Cia. “Il caso Abu Omar ha cambiato il mio modo di considerare i rapporti istituzionali e il ruolo della politica”, ammette Spataro.
I suoi principi per cui la legge è uguale per tutti e i diritti devono valere anche per il peggiore dei criminali (“Gli uomini delle istituzioni non possono comportarsi come l’Anonima sequestri”) vengono messi a dura prova da una vicenda in cui alcuni agenti americani, scoperti, processati e condannati, vengono prontamente graziati dal capo dello Stato; e in cui cinque governi (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) impongono il segreto di Stato sul caso e aprono il conflitto di poteri con i magistrati, rendendo improcessabili il direttore del servizio segreto militare italiano e i suoi uomini.
“Cambiano i governi, ma nessun governo sarà mai disposto ad accettare fino in fondo il ruolo che la Costituzione affida alla magistratura”, ripete. Ora Spataro incassa gli auguri di Salvini e, serenissimo, va in pensione, convinto comunque che “ne valeva la pena”.