GIUSTIZIA

Perché il processo milanese a Bossi in appello non si farà

Perché il processo milanese a Bossi in appello non si farà

Il conto alla rovescia è cominciato. La Lega di Matteo Salvini ha tempo fino al 30 novembre 2018. Poi, se non interverrà, farà morire il processo di Milano sui soldi pubblici del partito usati per fini privati dal suo ex tesoriere, Francesco Belsito, dal suo fondatore, Umberto Bossi, e dal figlio Renzo. È una parte di quei 49 milioni di fondi pubblici di cui i magistrati chiedono la restituzione o il sequestro, perché ritengono siano stati incassati dal partito in modo illegittimo, cioè con rendiconti falsi.

La Corte d’appello di Milano ha mandato una lettera al legale rappresentante della Lega, cioè Salvini, in cui spiega la situazione. Una modifica del codice penale contenuta nella riforma Orlando della giustizia e introdotta dal governo Gentiloni in zona Cesarini, il 21 marzo, due giorni prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, ha stabilito che il reato di appropriazione indebita non è più perseguibile d’ufficio, com’era finora, ma soltanto in seguito a querela della parte offesa. Un cambiamento che potrebbe essere utile al cognato di Matteo Renzi, Andrea Conticini (sposato con sua sorella Matilde) e ai suoi fratelli Alessandro e Luca, indagati dalla Procura di Firenze con l’accusa di aver dirottato su conti privati circa 6,6 dei 10 milioni di dollari raccolti per finanziare attività benefiche in Africa.

L’accusa, almeno per Alessandro Conticini, è appropriazione indebita aggravata. La stessa contestata a Milano a Umberto Bossi, a suo figlio Renzo e a Belsito. Niente più procedibilità d’ufficio: se dunque la Lega non presenta, entro tre mesi, una querela nei confronti del fondatore del partito e di quelli che allora erano il suo tesoriere e il suo successore designato (“Renzo? Non è proprio il mio Delfino, ma almeno il Trota”), il processo d’appello non potrà neppure iniziare. La lettera è stata firmata dalla presidente della quarta sezione penale, Cornelia Martini, in data 21 maggio 2018. I tre mesi sarebbero dunque già scaduti il 21 agosto e la partita sarebbe già chiusa.

Ma gli uffici giudiziari milanesi hanno tenuto nel cassetto la lettera fino agli ultimi giorni d’agosto e – dopo un sollecito ricevuto dalla presidente della Corte d’appello Marina Tavassi – l’hanno notificata in via Bellerio a Milano, sede del Carroccio, soltanto il 31 agosto. Così il termine di tre mesi scatterà il 30 novembre. Intanto però la prima udienza del processo d’appello è già stata fissata per il 10 ottobre. Quel giorno, la presidente Martini non potrà far altro che rinviare il dibattimento a dopo il 30 novembre. A meno che Salvini non voglia stupirci con effetti speciali e presentare querela contro Belsito e i due Bossi prima del 10 ottobre. Improbabile, vista l’aria che tira ai piani alti del Carroccio. Alla domanda del Fatto se il partito interverrà, la risposta è stata: “Al momento, no comment”.

Il processo milanese è gemello di quello in corso contro Belsito e i Bossi a Genova, in cui sono contestati altri reati che non richiedono la querela di parte e che dunque arriverà alla sentenza d’appello probabilmente a novembre. Il procedimento di Milano, invece, in primo grado ha stabilito condanne per 2 anni e 3 mesi a Umberto Bossi, per 1 anno e 6 mesi al figlio Renzo e per 2 anni e 6 mesi a Belsito. L’inchiesta, chiamata “Family”, era stata avviata nel 2012 dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai sostituti Paolo Filippini e Roberto Pellicano.

Aveva preso il nome da una cartellina sequestrata dai magistrati a Belsito, su cui era scritto, appunto, “Family”: conteneva la documentazione delle spese sostenute con soldi pubblici per gli interessi privati della famiglia Bossi: la ristrutturazione della casa del senatur a Gemonio, le multe del “Trota”, la sua “laurea” comprata in Albania, l’operazione di rinoplastica dell’altro figlio, Sirio… Circa 500 mila euro, a cui – secondo l’ipotesi d’accusa – si aggiungono 2,4 milioni intascati da Belsito tra il 2009 e il 2011. Le motivazioni della sentenza di primo grado stilate dal giudice Maria Luisa Balzarotti affermano che Umberto Bossi sarebbe stato “consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro” del partito, proveniente “dalle casse dello Stato” ma usato “per coprire spese di esclusivo interesse personale”, suo e della sua famiglia.

In primo grado, la Lega non si era costituita parte civile a dunque aveva rinunciato a chiedere i danni al suo fondatore. Ma il procedimento era andato avanti ugualmente perché il codice non imponeva la querela di parte. Ora invece la esige. E alla prima udienza del processo d’appello, il 12 ottobre, la presidente Martini non potrà far altro che rinviare a dicembre, quando saranno scaduti i tre mesi concessi al partito per querelare. Allora, salvo miracoli, il processo ancora in culla morirà.

Il Fatto quotidiano, 16 settembre 2018
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