Il racconto continua. “Quel giorno scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia laica, anzi di più, assolutamente non religiosa, direi proprio atea. Non avevo mai pensato di essere diversa dalle mie compagne di classe, dalle mie amiche di giochi. Invece quel giorno scoprii di essere ‘diversa’, che tutta la mia famiglia era ‘diversa’ e che questa ‘diversità’, non un mio comportamento, aveva provocato la mia espulsione da scuola. Il mio ricordo è legato alle facce di papà e dei nonni: volti segnati dalla preoccupazione come non li avevo mai visti prima”.
“Dopo quel giorno, a casa non si parlò più di questa faccenda. L’estate finì e ricominciò la scuola. Non rividi più né la mia classe né la mia maestra e le mie compagne non fecero a gara a mantenere rapporti con me. Io iniziai la terza elementare in una scuola privata. Mio padre, per difendermi, non volle mandarmi alla scuola ebraica di Milano, che sorse per permettere ai bambini ebrei di continuare gli studi e che era animata da insegnanti di grande valore. Di quell’estate del 1938 il ricordo più vivo che mi è restato è quello dei volti preoccupati di papà e dei nonni”.
Lo scoprì più tardi, l’orrore che nel ’38 era stato scolpito dal fascismo fin dentro la legge. “Cinque anni dopo, nel 1943, mio padre decise – troppo tardi, purtroppo – di fuggire dall’Italia. Ci presentammo al confine svizzero: io, papà e due cugini. Fummo respinti: siamo stati richiedenti asilo respinti dalla Svizzera. Poco dopo fummo arrestati. Avevo 13 anni quando fummo rinchiusi nel carcere di Varese, poi di Como, infine di San Vittore a Milano”.
Una mattina del 1944 Liliana fu caricata su un treno, viaggio di sola andata, verso il campo di Auschwitz. Partenza dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: sotto i binari che conosciamo, ce n’erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. “Da lì – dove ora è stato realizzato il Memoriale della Shoah – partimmo in centinaia, mentre attorno la città era silente, assente, indifferente”.
Per un anno ad Auschwitz fece lavoro schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Aveva 14 anni. “Sono stata liberata nel maggio del 1945, unica sopravvissuta della mia famiglia. Ho compiuto 15 anni pochi giorni dopo il mio ritorno a Milano. Poi ho taciuto per molti anni: nessuno aveva voglia di ascoltarci, tutti avevano vissuto storie dolorose, chi mai aveva voglia di sentirne di ancor più dolorose? Ho ripreso la parola a 60 anni, quando sono diventata nonna. È stata la mia vittoria, senza odio, sulla morte, su Hitler e su Mussolini che avevano voluto le leggi razziali e lo sterminio: io ero viva, ero diventata mamma e perfino nonna. Aveva vinto la vita. Per questo ho deciso, dopo 45 anni di silenzio, di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto affinché resti memoria”.
A settembre compirà 88 anni, Liliana Segre. È entrata in Senato – dice – “in punta di piedi” ed è uno dei cinque senatori a vita della Repubblica. “Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli delle leggi razziali del 1938. Non solo quelli più noti, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano di andare a scuola, di far parte dell’esercito, di lavorare nell’amministrazione pubblica… Ci sono imposizioni minori, ma non per questo meno gravi. Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l’effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso”. È l’essenza di ogni razzismo, di ieri e di oggi, che non è mai una “goliardata”.