Città di soldi, banche e chiese, Bergamo. Gli scandali, quando emergono, sono ovattati, i circoli dei potenti difendono bene la loro reputazione. Ogni tanto scoppia il caso, come quello della “Panda nera”: un gruppo di carabinieri e vigili urbani giravano per la Bassa bergamasca, nel fine settimana, picchiando e derubando spacciatori extracomunitari. Qualche volta a restare impigliato nelle reti della giustizia è un pesce grosso.
Tipo il questore della città, Dino Finolli, condannato in primo grado per storie di corruzione: accompagnava un imprenditore, Giovanni Cottone, ex marito di Valeria Marini e in passato in affari con la famiglia Berlusconi, a chiedere favori che non si devono chiedere. Anche il predecessore di Finolli, il questore Vincenzo Ricciardi, è stato indagato, ma per storie che vengono da lontano: la Procura di Caltanissetta lo ha tirato dentro l’inchiesta sul depistaggio della strage di via D’Amelio (ma senza alcun risultato).
C’erano un vescovo e tre magistrati di Bergamo, invece, a tavola, in una bella festa organizzata in provincia, a Bonate. Peccato che i padroni di casa, secondo quegli impiccioni degli investigatori, fossero i figli del boss Pasquale Locatelli, narcos alla bergamasca, per anni latitante in Costa Azzurra e in Spagna, ricercato per i suoi fiorenti commerci di cocaina con i cartelli colombiani. Storie vecchie, dimenticate in fretta.
Oggi però un processo sta per portare alla sbarra la crema della città, i più eccellenti banchieri bergamaschi, convocati in aula insieme con i loro colleghi-alleati-avversari di Brescia. Prima udienza, 25 luglio. Trenta imputati, tra cui l’amministratore delegato di Ubi Banca Victor Massiah, il presidente Andrea Moltrasio, i vicepresidenti Mario Cera, Flavio Pizzini e Armando Santus, oltre al presidente emerito di Intesa Giovanni Bazoli e a sua figlia Francesca.
Sono stati quei guastafeste di Fabio Pelosi, pubblico ministero a Bergamo, e del suo capo, il procuratore Walter Mapelli, a guastare il clima sereno che si respira in città. Hanno mandato a processo i vertici della banca, accusati di ostacolo agli organismi di vigilanza e di indebite influenze sulla formazione dell’assemblea. Sarà il primo processo che si celebra in Italia non a ex banchieri ormai caduti in disgrazia, ma all’intero gruppo dirigente in carica della terza banca italiana.
Tutto iniziò proprio qui, a Bergamo, nel 2007, quando si celebrano le nozze tra l’istituto di credito locale, la Banca Popolare di Bergamo, e la bresciana Banca Lombarda. È così che nasce Ubi Banca, sotto lo sguardo attento dei due gruppi fondatori: i bergamaschi di Emilio Zanetti e i bresciani di Bazoli. Il matrimonio s’aveva da fare, per non cadere preda degli stranieri. Ma s’avevano da conservare anche gli equilibri tra le due “famiglie”, gelose dei loro campanili, ma soprattutto del loro potere.
Ecco allora che Zanetti e Bazoli costruiscono una macchina perfetta per controllare nel tempo la banca, stipulano un patto raffinatissimo che permette ai due gruppi fondatori di decidere tutte le cariche sociali e di spartirsele, alternandosi al comando e tenendo fuori gli altri azionisti. A decidere i vertici, secondo l’accusa, non sono gli organi sociali dell’istituto e il comitato nomine, ma la geometrica e simmetrica potenza delle due associazioni di azionisti che riuniscono i soci fondatori: i bergamaschi “Amici di Ubi” guidati da Zanetti; e i bresciani dell’“Associazione Banca lombarda e piemontese” presieduta da Bazoli.
“Abbiamo fatto tutto per il bene della banca”, ripetono gli imputati. E il patto funziona senza intoppi fino al 2013, quando all’assemblea dei soci si presentano due liste alternative, quella di Andrea Resti e quella di Giorgio Jannone, ex parlamentare di Forza Italia. Di fronte al pericolo, il patto stretto da Bazoli e Zanetti mette il turbo e fa scattare un piano d’emergenza per vincere a tutti i costi l’assemblea – sostiene l’accusa – con presentazione di firme false, deleghe in bianco, voti raccolti impiegando militarmente i dipendenti e le agenzie, oltre alla potentissima Compagnia delle Opere di Bergamo e all’associazione degli artigiani Confiab.
Gli “estranei” sono respinti, ma scattano le proteste dell’Adusbef, le denunce di Jannone. Alla fine, Pelosi ritiene di aver trovato le prove del patto occulto, nascosto al mercato, a Bankitalia e alla Consob, per mantenere il controllo di Ubi ed escludere “dalla gestione della banca soggetti estranei alle due associazioni”. I giudici decideranno se gli eccellentissimi imputati sono colpevoli. Certo che un processo così a Bergamo non si era mai visto.