Il ricercatore: “Non provato che le pene alternative riducano la recidiva”
Le pene alternative riducono la recidiva. Cioè chi sconta la sua pena fuori dal carcere poi delinque meno di chi resta chiuso in cella. Questo è l’assunto su cui poggia la riforma penitenziaria in corso d’approvazione, ripetuto a gran voce dai suoi sostenitori, che richiamano le ricerche e i dati forniti dalla amministrazione penitenziaria. Chi accede alle misure alternative, dicono i dati, incorre nella recidiva solo nel 30 per cento dei casi, mentre chi sconta l’intera pena in carcere è recidivo al 70 per cento: è un argomento convincente per aprire il più possibile le celle. “Peccato che non sia vero”, dice Roberto Russo, ricercatore e docente di Diritto, che si è preso la briga di andare a controllare.
“Si continua a ripetere che il soggetto ammesso alle misure alternative compia altri reati tre volte meno di un soggetto che non ha potuto accedere a questi benefici, ma mi sono chiesto: qual è la statistica da cui lo si deduce? L’ho cercata: non c’è”. Russo ha trovato lo studio a cui i sostenitori della riforma fanno riferimento: si intitola “Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”, è stato scritto da Fabrizio Leonardi e pubblicato nel 2007 sulla rivista Rassegna penitenziaria e criminologica. “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”, sorride Russo. “Prende in esame un certo numero di detenuti (8.817 per la precisione) ammessi al beneficio dell’affidamento in prova e che abbiano finito di scontare la loro pena nel 1998. Poi conta quanti di questi, al settembre 2005, ci siano ‘ricascati’, cioè siano stati nuovamente condannati in via definitiva. Sono solo 1.677, quindi il 19 per cento”.
Addirittura molto meno del 30 per cento. Tutto bene, quindi? “No, perché sono stati contati non quanti hanno commesso reati, ma quanti sono stati condannati in via definitiva entro il 2005”. Ossia: sono stati conteggiati soltanto quelli che, usciti dal carcere nel 1998, hanno commesso un nuovo reato, sono stati individuati (“cosa non scontata considerando l’alta percentuale dei crimini impuniti”), e infine processati in primo grado, in appello ed eventualmente anche in Cassazione, con sentenza definitiva emessa entro il settembre 2005. “Capite bene che è un miracolo che siano più di mille, visto quanto durano i processi”. Da questa statistica restano fuori, spiega Russo, “tutti quelli che hanno compiuto reati ma non sono stati presi. E tutti quelli che, benché individuati, nel settembre 2005 erano sotto processo ma non avevano ancora avuto una sentenza definitiva”.
Russo osserva poi che “uno studio serio che abbia l’obiettivo di misurare davvero il tasso di recidiva deve profilare anche un ‘gruppo di controllo’: cioè bisognava esaminare tutti i soggetti che hanno avuto il fine pena nel 1998, dividerli in due categorie (quelli che hanno avuto accesso alla misura alternativa e quelli che non l’hanno avuta) e vedere se tra i due insiemi, a settembre 2005, vi fosse un significativo scostamento circa l’incidenza della recidiva. Solo allora si sarebbe potuto trarre delle conclusioni”.
Russo aggiunge un altro elemento, citando lo stesso autore dello studio del 2007, che avvertiva: “È bene ricordare che le persone ammesse alle misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”. La “scrematura” è già fatta scegliendo le persone che non dovrebbero tornare a delinquere.
“Un esempio paradossale aiuta a comprendere”, continua Russo: “Volendo dimostrare il beneficio di un prodotto dimagrante, lo vado a testare non sulla generalità della popolazione, ma su persone scelte perché fanno sport e poi vado a misurare l’efficacia del prodotto un anno dopo che hanno smesso di farlo, scoprendo che solo il 19 per cento è in sovrappeso, mentre nel resto della popolazione è in sovrappeso il 70 per cento. Insomma: mi pare che le mie osservazioni dimostrino al di là di ogni ragionevole dubbio che non vi è alcuna possibilità di fondare scelte di politica criminale su uno studio che aveva tutt’altre finalità e che quindi non ha alcuna colpa circa l’utilizzo che ne viene fatto”.
Ora la riforma penitenziaria, già approvata dal governo Gentiloni il 16 marzo, dovrà essere esaminata in Parlamento: non certo a breve, nelle “commissioni speciali” già nate alla Camera e al Senato, ma nella commissione Giustizia che nascerà dopo la formazione di un governo. Sarà un calvario: favorevoli Pd e Forza Italia, contrari però sia il M5s sia la Lega, che anzi la definisce “riforma svuotacarceri” o addirittura “salvaladri”.
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