POLITICA

Il senso di Silvio per i dossier (ovvero come tenere a bada Salvini)

Il senso di Silvio per i dossier (ovvero come tenere a bada Salvini)

Irrilevante? Silvio Berlusconi il Condannato è stato espulso dal Parlamento e non si può candidare alle elezioni. Silvio Berlusconi il Politico ha perso per strada 10 milioni di voti ed è stato superato, nel centrodestra, dall’alleato Matteo Salvini. Eppure il leader di Forza Italia continua a presidiare la scena e a tenere congelato il quadro politico, permettendosi perfino di umiliare gli alleati con le sue squinternate gag al Quirinale. Perché resta, malgrado tutto, così forte? Perché ha ancora una dote di voti e un nutrito gruppo di fedeli in Parlamento. Perché i suoi alleati continuano a essergli grati per aver portato la destra e la Lega al governo.

Ma ci sono anche altri, più invisibili motivi? Il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, due giorni fa ha mandato un pizzino al leader della Lega: “Occhio al confine tra un legittimo rinnovamento e un tradimento. Sono certo che Salvini, anche per il suo bene, sappia esattamente dov’è e mi auguro non lo attraversi”. Per il suo bene. Si sa che a Berlusconi, grande seduttore di uomini e donne, piace più essere amato che temuto, eppure nella sua vita ha usato anche metodi molto diversi dalla seduzione.È Roberto Maroni – oggi leghista più vicino a Berlusconi che a Salvini – a raccontare un episodio che illumina il lato nascosto della forza di Silvio. Dopo aver fatto per 226 giorni il suo ministro dell’Interno, nel 1995 rivela in un’intervista di aver visto molti dossier. “Ne giravano tanti”. Ferveva il lavorio sotterraneo della delegittimazione, che non risparmiava neppure le più alte cariche dello Stato: “Ce n’era uno anche su Oscar Luigi Scalfaro”. L’allora presidente della Repubblica. “Per il mio ruolo istituzionale, decisi di avvertire il presidente. Lui mi rispose, tranquillo: ‘Che lo tirino fuori, io non ho nulla da nascondere’. Poi di quel dossier non si seppe più nulla”.

Contro Mani pulite

La macchina del fango comincia a lavorare prima del suo arrivo al governo. Innanzitutto contro Antonio Di Pietro, il magistrato di Mani pulite. “Berlusconi ce l’aveva a morte con Di Pietro, perché lo superava nei sondaggi di popolarità”, racconta Maroni nel 1995. Il mondo Fininvest si era messo in moto per dossierare il magistrato che stava rivelando Tangentopoli. Nel maggio del 1994, proprio mentre parte l’indagine sulle tangenti alla Guardia di finanza che arriverà anche a Berlusconi, un brigadiere delle Fiamme gialle, Paolo Simonetti, si mette a caccia di notizie compromettenti su Di Pietro e il pool Mani pulite. Sulla sua agenda e sul suo computer annota i suoi punti di riferimento, con sigle facili da decrittare: Berpao (Paolo Berlusconi), Braal (Aldo Brancher), Preces (Cesare Previti), Dadant (Antonio D’Adamo). Tutti uomini Fininvest.

Non era l’unico al lavoro. Tra i più attivi c’è Antonio D’Adamo, ex manager Fininvest. I suoi affari immobiliari andavano male, ma il Cavaliere lo sostiene con aiuti consistenti. In cambio, riceve un memoriale in cui si rivela che Di Pietro ha ricevuto soldi da un suo indagato, il banchiere Francesco Pacini Battaglia. C’è anche un nastro con la registrazione delle confidenze di D’Adamo, confezionato con un “taglia e cuci” da cui si capisce che il magistrato sarebbe stato corrotto dal banchiere. Ci vorrà una lunga indagine a Brescia per prosciogliere Di Pietro e stabilire, nel 1999, che “il fatto non sussiste”.

La Lega in pugno

In quegli anni, si stringe un rapporto forte tra Berlusconi e Umberto Bossi, il leader della Lega Nord. Insieme vincono le elezioni del 1994, ma poi è Bossi a staccare la spina al governo, mentre il giornale del Carroccio, La Padania, comincia a chiamare Berlusconi “il mafioso di Arcore”. Nell’agosto del 1998 pubblica con grande evidenza dieci domande sull’odore dei soldi e sulle imbarazzanti relazioni siciliane del fondatore di Forza Italia. Nel 2000, il clima cambia. Bossi e Berlusconi siglano un patto di ferro che li porterà al trionfo elettorale del 2001.

“L’accordo potrebbe essere raggiunto in tempi brevi. Si può dire che è stato raggiunto, in parte è già scritto”, dichiara Bossi a Repubblica il 27 gennaio 2000. “Ma lo avete depositato del notaio, come scrive qualcuno?”, gli chiede l’intervistatore. Il leader del Carroccio lo gela: “A che cosa serve il notaio in politica? Sono cose da matti, invenzioni fantasiose”. Eppure la notizia dell’esistenza di un patto scritto circola da subito. E arriva dall’interno della Lega. Qualcuno favoleggia di un accordo con una parte anche finanziaria: una fideiussione, debiti appianati, bilanci risanati. “Cose da matti, invenzioni fantasiose”, come dice Bossi.

Qualche anno dopo, si saprà che all’esistenza di quel patto scritto credeva anche la security Telecom guidata da Giuliano Tavaroli, che lo ha cercato a lungo. Quando nel 2007 arrestano un collaboratore di Tavaroli, il giornalista di Famiglia cristiana Guglielmo Sasinini, tra i documenti che gli sequestrano ci sono anche appunti sul presunto patto Berlusconi-Bossi. Dicono: “In quel periodo pignorata per debiti la casa di Bossi”. E poi: “70 miliardi dati da Berlusconi a Bossi in cambio della totale fedeltà”. “Debiti già ripianati con 70 mld”. E ancora: “Notaio milanese?”. Segue anche il nome “Tremonti”, senza però altri dettagli.

Bossi non si scompone: “Figurarsi! Una balla spaziale. Berlusconi è uno che non tira fuori un soldo nemmeno per pagare i manifesti elettorali… figurarsi se tira fuori dei soldi per la Lega!”. Ma i soldi per la Lega qualcuno li ha tirati fuori. È Gianpiero Fiorani, il banchiere della Popolare di Lodi che nel 2005 guida gli assalti dei “furbetti del quartierino”. È lui che salva la Lega arrivata a un passo dalla bancarotta a causa di investimenti sbagliati: un villaggio turistico in Croazia, ma soprattutto una banca (Credieuronord) che in soli tre anni brucia oltre 10 milioni e riesce a perdere quasi per intero il capitale sociale, con le azioni pagate 25 euro l’una che alla fine dell’avventura crollano a 2,16 euro.

I capi leghisti rischiano, con la bancarotta, di rimetterci la faccia e magari anche i patrimoni. Ma arriva il salvatore: Fiorani. Nel 2004 compra Credieuronord e annega i debiti della banchetta leghista nell’accogliente pancia della Popolare di Lodi. Le finanze leghiste restano comunque fino a oggi un oggetto misterioso. Su questo sfondo opaco, non è così strano che possano attecchire le leggende di patti segreti che legano per la vita il Silvio e l’Umberto. E magari anche i suoi successori. “Cose da matti, invenzioni fantasiose”: parola di Bossi.

Il bacio di Elisa

Anche l’uomo nuovo della Lega, Matteo Salvini, ha assaggiato il potere delle armate berlusconiane. Oggi la sua fidanzata, la conduttrice tv Elisa Isoardi, ritrae se stessa sui social mentre gli stira le camicie. Anche se poi Matteo precisa: “Vi do una notizia: la camicia era di Elisa”. Ma nell’estate 2017 l’idillio è diventato per qualche settimana tragedia. È il settimanale Chi diretto da Alfonso Signorini, ala gossip del vasto schieramento mediatico berlusconiano, che nel luglio dello scorso anno sbatte in prima pagina un bacio a Ibiza di Elisa Isoardi: peccato che a riceverlo fosse il Matteo sbagliato, l’avvocato milanese Matteo Placidi.

È subito crisi. Elisa pubblica una sua foto con gli occhi tristi e un messaggio sibillino: “Il tempo mette ognuno al proprio posto. Ogni regina sul suo trono. Ogni pagliaccio nel proprio circo”. Salvini non protesta, non invoca la privacy. Aspetta. Il tempo ha curato le ferite ed Elisa, di chiunque sia la camicia stirata, è tornata da lui. Ma intanto lui ha capito il messaggio.

Una casa a Montecarlo

Di ben altro spessore i ricatti e i dossieraggi subiti dai nemici di Berlusconi o dagli amici che provano a diventare indipendenti. Nel 2006 tocca a Romano Prodi, l’unico che è riuscito a batterlo due volte alle elezioni. Avvengono alcuni misteriosi accessi (illegittimi) nell’anagrafe tributaria da cui sono estratte informazioni riservate. Queste poi riaffiorano sui giornali berlusconiani in una campagna di stampa contro l’allora leader del centrosinistra. Invece il giudice Raimondo Mesiano, che condanna la Fininvest a pagare un risarcimento di 750 milioni al gruppo De Benedetti per lo scippo della Mondadori, viene sbeffeggiato su Canale 5 per i suoi “comportamenti stravaganti” e i suoi calzini azzurri.

Va molto peggio all’amico da punire perché ha cominciato a voler fare di testa sua: Gianfranco Fini, allora guida di An e presidente della Camera. Nel settembre 2009 comincia il direttore del Giornale Vittorio Feltri a minacciare di andare a ripescare oscuri dossier: “Fini ricordi che delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio”, scrive Feltri. “Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. È sufficiente – per dire – ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di An per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme”.

Poi ci pensa il parlamentare Pdl Giorgio Stracquadanio a dichiarare al Fatto quotidiano che Fini merita un “trattamento Boffo”. L’accenno è al direttore dell’Avvenire Dino Boffo, diventato troppo critico verso il leader di Forza Italia. Scatta la reazione: Boffo viene infangato nel 2009 da Feltri e dalla solita batteria di giornali berlusconiani che raccontano una sua condanna per molestie. Contro Fini l’offensiva finale parte invece nel 2010: sulla casa di Montecarlo, lasciata in eredità al partito ma finita a Giancarlo Tulliani, fratello della compagna di Fini.

“Disarticolare” i nemici di B

Il caso più clamoroso di utilizzo improprio e illegale degli apparati istituzionali resta quello dell’archivio Sismi di via Nazionale, a Roma, guidato da Pio Pompa, ombra (“Shadow”) del direttore del servizio segreto militare Nicolò Pollari. A partire dal 2001, negli uffici di via Nazionale è stata accumulata una mole imponente di dossier illegali su magistrati, politici, intellettuali d’opposizione, giornalisti (tra cui anche chi firma questo articolo e il direttore di questo giornale): schede, citazioni, informative su persone considerate “nemiche” di Berlusconi, contro cui intervenire per “disarticolare, neutralizzare e dissuadere”, anche con “provvedimenti” e “misure traumatiche”.

Poi la “macchina del fango” si è rimessa in moto per azzoppare il presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo. Nell’ottobre del 2009 viene diffusa la notizia che Marrazzo è ricattato da quattro carabinieri in possesso del video di un suo incontro con una transessuale. È la fine della sua carriera politica. Ma il primo a sapere della vicenda è Berlusconi, informato dal direttore di Chi Signorini, a cui era stato proposto un evidentemente impossibile acquisto del video.

“Abbiamo una banca”

È Berlusconi in persona, allora presidente del Consiglio, a ricevere, la vigilia di Natale del 2005, un “regalo” molto particolare: il file audio con l’intercettazione segreta tra Piero Fassino, allora segretario dei Ds, e Giovanni Consorte, presidente di Unipol. “Allora, siamo padroni di una banca?”, chiede Fassino. Si riferisce alla scalata in corso sulla banca Bnl. L’intercettazione non era ancora a disposizione neppure dei magistrati che stavano conducendo l’indagine sulle scalate bancarie dei “furbetti del quartierino”.

Ma ecco che arriva, nei primi giorni del 2006, sulla prima pagina del Giornale della famiglia Berlusconi. Diventa uno dei tormentoni della campagna elettorale, forse il più forte degli argomenti che permettono la clamorosa rimonta elettorale di Berlusconi alle elezioni politiche della primavera 2006: Prodi, che nei sondaggi prima di Natale aveva dieci punti di vantaggio, vince per una manciata di voti, tanto che il suo governo viene travolto soltanto 18 mesi dopo. Con questa lunga storia alle spalle, è normale che chi oggi è accanto a Berlusconi ci pensi due volte, e anche tre, prima di contrariare troppo il satrapo anziano in declino.

Il Fatto quotidiano, 15 aprile 2018
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