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I segreti di Ultimo, carabiniere Apache

I segreti di Ultimo, carabiniere Apache

Ora che lascia i servizi segreti e torna nell’Arma dei Carabinieri, il capitano Ultimo, l’uomo che ha arrestato Totò Riina, avrà più tempo per le sue aquile reali: il maschio Wahir e la femmina Lacrima. Vivono, insieme ad altri rapaci, nella falconeria che ha aperto alla periferia di Roma, nella Tenuta della Mistica. La Mistica è una casa famiglia che ospita minorenni in difficoltà, messa su insieme ad amici, volontari e uomini della sua vecchia squadra.

Sergio De Caprio, nome di battaglia Ultimo, ha sempre giocato fuori dagli schemi. “Le aquile le ho incontrate in sogno. Stavo male, dopo le accuse seguite alla cattura di Riina. Ero in ospedale e una notte ho sognato uno stormo di falchi che mi venivano addosso ma senza attaccarmi, mi sfioravano, mi davano quasi delle carezze. Ho capito: era un messaggio del mio vecchio amico, il capo Apache Ronnie Lupe: mi suggeriva di curarmi con i falchi. Ho aperto la falconeria, da allora non sono più stato male”.

De Caprio, classe 1961, aveva cominciato a fare il carabiniere a Bagheria, in Sicilia. Poi, in una stanzetta spoglia della caserma milanese di via Moscova, aveva appeso sul muro il poster con la foto dell’uomo che in piazza Tien An Men a Pechino ferma da solo una colonna di carri armati. In quella stanzetta comincia la sua caccia ai latitanti di Cosa nostra al nord. Ne nasce la prima inchiesta sulla mafia a Milano, la Duomo Connection, guidata tra il 1989 e il 1990 dalla pm Ilda Boccassini. Il capitano è estroso ma efficace.

Lo mandano a Palermo a dirigere il gruppo del Ros (il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri) che dà la caccia nientemeno che al capo dei capi di Cosa nostra. La sua sezione si chiama Crimor (criminalità organizzata), ma lui chiama il suo gruppo, imitando i militanti clandestini della lotta armata, Unità Militare Combattente. Diventa Ultimo, “perché ho visto troppi sgomitare per arrivare primi”.

Suo modello, gli Apache: “Nei momenti duri ho pensato molto alle loro tecniche di combattimento, al loro modo di apparire e svanire, di essere pochi e sembrare tanti”. I suoi uomini vivono da irregolari e da clandestini. Non hanno differenza tra vita e lavoro. Si chiamano tra loro con il nome di battaglia: Aspide, Pirata, Arciere, Ombra, Parsifal, Vichingo, Oscar, Hitto, Solo, Veleno. Il 15 gennaio 1993, Ultimo mette le manette ai polsi di Riina. Seguono le polemiche e il processo per la mancata perquisizione del “covo” da cui il boss era uscito. Viene assolto.

Diventato colonnello, è mandato a fare il vicecapo del Noe dei carabinieri, il Nucleo operativo ecologico. Potrebbe essere la fine del cacciatore Apache. Ma arriva il pm Henry John Woodcock ad affidargli le sue indagini più delicate sui poteri italiani che incrociano politica e affari, massoneria e Vaticano.

Alle inchieste alterna il volontariato alla Mistica. “Per me è una preghiera fare giustizia senza chiedere niente in cambio, è una preghiera fare il prete-carabiniere cercando di creare tutta l’eguaglianza e la bellezza possibile nella sopravvivenza di chi viene alla nostra porta e la trova aperta”.

Tenta di avvicinarlo Sabatino Stornelli, amministratore delegato di Selex, gruppo Finmeccanica, che poi nel 2013 finirà in un brutto guaio giudiziario. Ma un’indagine su De Caprio, archiviata dalla Procura di Roma, esclude sue responsabilità. Nell’estate 2015, su Ultimo esplode di nuovo la polemica: una disposizione del comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, toglie al colonnello De Caprio le funzioni di polizia giudiziaria, lasciandogli il grado di vicecomandante del Noe, ma senza compiti operativi.

Nel gennaio 2017 ha la sua rivincita, quando il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, lo chiama a dirigere il Reparto Sicurezza dell’agenzia. È l’ufficio “affari interni”, quello che deve controllare la correttezza degli altri agenti. Lui si porta dietro, come sempre, la sua squadra. “Il mio amico capo Apache è stato con noi due giorni senza dire una parola. Alla fine del secondo giorno ci ha detto: ‘Vi ho osservati, siete come questa mano: se la vedi aperta sono cinque dita, se la vedi chiusa è la forza di un pugno’”. Ora la squadra torna tra i carabinieri.

Il Fatto quotidiano, 21 luglio 2017
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