Stefano Rodotà, l’Italia degli scandali
«Un giorno Vito Laterza mi chiama e mi dice: “Gianni Barbacetto ed Elio Veltri hanno scritto un libro sugli scandali della politica milanese, faresti la prefazione? Bobbio non ha voluto”. Io lo leggo, lo trovo interessante e scrivo. Apriti cielo: vengo addirittura deferito al collegio dei probiviri del partito, perché in quel libro veniva chiamato in causa anche il Pci milanese. E secondo loro come presidente del Pds non avrei dovuto scrivere la prefazione. Poi la cosa davanti ai probiviri si risolve in niente, e si scopre che il Pci milanese era coinvolto nelle vicende di Tangentopoli. Su questo ho avuto molti scontri con i vertici del Pci».
Stefano Rodotà a Silvia Truzzi, il Fatto quotidiano, 7 settembre 2014
Ecco dunque la prefazione di Stefano Rodotà a Milano degli scandali, edito da Laterza e uscito nel 1991. Pochi mesi dopo, prende avvio Mani pulite.
“La ricostruzione della moralità pubblica
è oggi il più ricco dei programmi politici
e la più grande delle riforme”
Sono, queste, cronache di ordinaria corruzione. In esse non si riflette una patologia, ma quella che ormai sta diventando (è già diventata ?) la fisiologia dell’intero sistema politico – amministrativo dell’Italia repubblicana. Non sono cronache di una lontana provincia, isolate e dissonate, ma del centro produttivo del Paese. Non sono campioni estratti con un’opera minuziosa d’indagine da un mondo ombra, ma vicende ben note, già arrivate alla conoscenza dell’opinione pubblica.
Facendo queste constatazioni, penso di non diminuire l’importanza del lavoro degli autori di questa lunga e disperante cronaca, i meriti della loro ricerca. Al contrario. Sono da tempo convinto che di queste cronache abbiamo grandissimo bisogno, per sottrarre i fatti che narrano alla dimenticanza, alla vita effimera d’una pagina di giornale o a quella, inaccessibile per i più, di un atto giudiziario. Solo così si può mostrare come il singolo scandalo, conosciuto magari distrattamente attraverso il racconto d’un processo, non fosse un caso eccezionale, ma la rivelazione d’una abitudine, di un tessuto di relazioni tutte identiche, in una parola d’un costume politico che si candida ad essere l’unica ineludibile legge di questo Paese.
La cottuzione si è fatta da tempo metodo di governo. Negli ultimi anni è divenuta qualcosa di più: cultura diffusa, che ispira comportamenti politici e stili di vita di un’intera classe dirigente politica, amministrativa, imprenditoriale, la quale ostenta con durezza i panni del realismo e disprezza il moralismo. Corrotti e corruttori possono essere scoperti. Ma diventa sempre più difficile rivolgere verso essi una vera riprovazione sociale. Perché tutto questo sta avvenendo, è avvenuto? Ci no ragioni specifiche del nostro Paese, ed altre che si accomunano non onorevolmente, a quel che sta accadendo pure altrove. Non basta un riferimento all’ampiezza della corruzione per cogliere qualità e caratteri della vicenda italiana. Ci sono Paesi di alta e lunga tradizione democratica che da sempre convivono con una non indifferente corruzione politica e amministrativa, che conoscono i legami tra politici e gruppi di pressione, e tuttavia non hanno visto crescere la qualità della corruzione fino a divenire uno dei segni distintivi del sistema politico.
Questo perché in quei Paesi sono ancora in onore due criteri, quello del “si fa, ma non si dice”e quello della difesa della rispettabilità formale della classe dirigente. Il primo sarà pure ispirato ad una detestabile ipocrisia, ma almeno non porta alla pubblica giustificazione del vizio. Inoltre, le classi dirigenti, per sincera abitudine o vecchia furbizia, sanno di dover mantenere una sia pur minima legittimazione di fronte all’opinione pubblica così che, magari per puro istinto di autoconservazione, reagiscono espellendo dal loro seno almeno i responsabili dei comportamenti più scandalosi, anche quando ricoprono altissime cariche politiche.
In Italia, no. Il nostro ceto di governo ha via via sviluppato una attitudine esattamente opposta. Ha badato alla propria coesione interna, più che alla sua rispettabilità pubblica. Ha così fatto quadrato intorno ai propri ladri, malversatori, tangentari, procacciatori, finanziatori. Ha rifiutato di accettare la distinzione, ovvia, tra accertamento giudiziario di un reato e comportamenti che, sia pure sfuggiti in qualche modo tra le maglie della giustizia rimangono politicamente inaccettabili ed ha così mantenuto al loro posto anche persone colpite da un paio di condanne, sia pure non definitive e assolte in modi acrobatici.
Ha trasformato in indebita persecuzione la sacrosanta richiesta di non affidare la gestione di pubbliche risorse a chi sia stato sospettato di attività illecite. Ha urlato contro le opposizioni che invocano pulizia. Ha presentato come disturbatore o irresponsabile chi adempiva all’ovvio dovere di denunciare i casi di corruzione ( ne sa qualcosa Diego Novelli per non essersi arreso alla corruzione torinese). Ha elevato a propria linea di comportamento l’ironico e disperato apologo Ennio Flaiano “Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate forte che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah – dice – ma non sono in triplice copia!”. E così, questo ceto di governo mantenuto al loro posto, o reintegrato allegramente in posizioni provvisoriamente abbandonate o riciclato in maniera vantaggiosa, personaggi che qualsiasi sistema politico democratico avrebbe espulso senza esitare. Ma questo bel ceto di governo ha fatto di più. Ha prodotto teorizzazioni che dovrebbero provare la modernità piena, e dunque la superiorità, di atteggiamento che non si attarda nel cercar di scoprire e colpire la corruzione, ma va dritto verso obiettivi di efficienza.
Personaggi autorevolissimi di questa Repubblica hanno divulgato senza pudore la “metafora del supermercato”. Si ricorda, infatti, che il gestore del supermercato sa benissimo che molti frequentatori rubano o rubacchiano. Ma sa altrettanto bene che servizi di controllo e apparati di sicurezza non riusciranno mai ad evitare del tutto i furti. E che un controllo troppo rigido sulle persone, con perquisizioni o simili, rischierebbe di allontanare i clienti da quel supermercato. Ecco, allora, che l’accorto gestore contabilizza i furti, e ne scarica l’incidenza sui prezzi. Profitti e immagine sono salvi, all’insegna del calcolo economico e del realismo. Questa lezione della “modernità” manageriale dovrebbe esser messa a profitto anche della classe politica, che dovrebbe spogliarsi di moralismi arcaici e andar dritta allo scopo, senza preoccuparsi troppo se briciole o intere forme di pane finiscono in qualche impropria bisacca. Per questo ho usato un termine con “cultura”. Senza tutto questo apparato di comportamenti e di giustificazioni sarebbero inesplicabili le vicende che qui sono raccontate, sul filo di un materiale così ricco e parlante che non ha bisogno né di fantasia, né di eccessi di interpretazione da parte degli autori.
Questo gran collage ci rivela impreviste connessioni, schemi collaudati d’azione, esercizio tracotante del potere, sicurezza d’impunità. Certamente riesce ad impressionarci. Sarà anche capace di destare indignazione? In altri tempi lo avrebbe fatto. Oggi ho molti dubbi. E li ho non soltanto perché una corruzione così penetrante, avvolgente e dichiarata produce sicuramente un effetto di mitridatizzazione, ed ha coinvolto una schiera sempre più larga di persone nella politica delle tangenti e delle piccole mance, alle quali non si è disposti a rinunciare perché compongono ormai redditi ordinari e connotano stili di vita. C’è una ragione più generale, e davvero non solo italiana. L’irresistibile fascino della corruzione è alimentato da un modello che misura tutto con il denaro. Un denaro che, sciolto da ogni criterio o moralità, “impazzisce”. La Germania assiste sconsolata ai suoi scandali finanziari, la Francia è attonita perché il denaro insidia le virtù repubblicane e spinge pure i grands commis verso più pingui rive dell’imprenditoria privata.
In altri Paesi, tuttavia, la capacità di reazione non è perduta. Ne fanno fede la rapida e severa giustizia che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno saputo esercitare contro le manifestazioni più spregiudicate della speculazione finanziaria. Da noi tutto è molle, gli speculatori hanno solidi legami con il ceto di governo, quando addirittura non ne fanno parte, e a qualcuno può anche arridere la ventura d’essere additato come salvatore della patria. Aggiungo che la stessa metafora del supermercato non funziona, si rivela l’ennesimo imbroglio. Proprio questo libro, tutto riferito alla regione più avanzata d’Italia, ci mostra che la corruzione non va a braccetto con l’efficienza, che non è un modo per oliare i cardini arrugginiti della burocrazia o della politica. È divenuta motore di inefficienza, di privatizzazione delle risorse, di sottrazione di energie e mezzi a imprese collettive.
Ha creato rapporti tra politica e affari, tra politica e amministrazione che fanno apparire modesto il “ mostruoso connubio” denunciato nel secolo passato da Silvio Spaventa, e ingenua la sua indignazione. Si dirà che non tutti i componenti del nostro ceto di governo si comportano in questo modo. Ed è vero. Ma la loro colpa è quella di essere vittime del realismo, di coltivare l’omertà di partito, di essere prigionieri della logica “ ma così si fa il gioco degli avversari”. Qualche sussulto di dignità, qualche pallida dissociazione pubblica sono la prova di onestà personali, non dell’affiorare di comportamenti politici che possono far sperare in una pacifica rivolta contro la corruzione.
Riflettendo su tutto questo, leggendo questo capiranno pure le ragioni di continue e forsennate campagne contro i giudici che,travestite talvolta da gridi di dolore per le condizioni dell’amministrazione della giustizia, in realtà cercano di azzerare il controllo giudiziario. Questo, bene o male, rimane ancora uno dei pochissimi strumenti che possono non dico fronteggiare, ma almeno contrastare qualche volta i protagonisti di questo spudorato modo d’intendere la gestioine del potere. In un tempo in cui l’etichetta della “governabilità” è usata per coprire qualsiasi prevaricazione, e si trasforma nella richiesta di avere le mani libere, qualsiasi forma di controllo diventa inaccettabile, quello dei giudici come quello del Parlamento o dei mezzi d’informazione. Ma la sua giustificazione della corruzione, o meglio la sua legittimazione, segue ormai cammini più sottili. Essa -si dice – è uno dei tanti frutti di un sistema bloccato. Fiorisca l’alternativa, e pure la corruzione sparirà.
Non nego una certa fondatezza della diagnosi. Sarei meno sicuro della irresistibilità della terapia, perché un governo di alternativa non basta da solo a sradicare la corruzione (non è forse questo l’insegnamento di tanti governi “alternativi” di regioni e comuni?), se la moralità pubblica non diviene momento essenziale del programma e dei concreti comportamenti di tutti i governanti. Mi preoccupa, comunque, il rinvio al momento dell’alternativa della possibilità di una lotta efficace alla corruzione, quasi che oggi le regole del codice penale fossero pur’esse, per effetto del blocco del sistema politico, divenute inapplicabili. Troppe cose, dunque, inducono a temere che le documentate pagine di questo libro non produrranno l’indignazione che muove le montagne. C’è il rischio, anzi, che qualcuno, di fronte ad un panorama cosl largo e cosl desolante, si convinca che davvero non si può far nulla. Ma ci sono buone azioni civili che debbono pur essere fatte, senza preoccuparsi troppo di conseguenze, effetti, riflessi. Intanto, spero almeno che qualcuno, leggendo questo libro, si vergogni, non dico si ravveda. E molti altri comincino a rendersi conto che proprio da qui deve cominciare una reazione. Che la ricostruzione della moralità pubblica è, oggi, il più ricco dei programmi politici, e la più grande delle riforme.
Stefano Rodotà, marzo 1991