Il rettore della Statale: “Ecco perché il numero chiuso non è contro il diritto allo studio”
Non si aspettava le polemiche e gli attacchi ricevuti dopo aver fatto approvare il numero programmato nei corsi di laurea umanistici dell’Università Statale di Milano. Il rettore, Gianluca Vago, aveva deciso di non replicare e solo ora che le polemiche si sono calmate accetta di rispondere alle domande del Fatto Quotidiano.
Che cosa è successo, professore?
È successo che il 23 maggio ho portato in Senato accademico la proposta di introdurre il numero programmato anche per le lauree triennali di filosofia, lettere, storia, beni culturali, lingue. È passata per un voto, 18 sì contro 11 no e 6 astenuti. Ed è partita una polemica molto ideologica sulla difesa del diritto allo studio.
Come è nata la sua proposta?
Da due semplici constatazioni. La prima: dopo che lo scorso anno è stato introdotto il numero programmato alla facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali abbiamo avuto un aumento molto forte, circa il 30 per cento, delle iscrizioni alle facoltà con accesso libero, ormai solo quelle umanistiche e di giurisprudenza. La seconda: il ministero dell’Università ha ridefinito il rapporto tra numero di studenti e numero docenti per poter accreditare i corsi di laurea. In sostanza, il corso viene accreditato solo se ha un determinato numero di docenti per ogni corso di laurea. Ci siamo resi conto che se gli studenti fossero restati in numero uguale o superiore allo scorso anno, alcuni di questi corsi non sarebbero stati accreditati; e soprattutto, che questo ci avrebbe impedito l’introduzione di nuovi corsi di laurea, in tutto l’Ateneo. Allora siamo intervenuti, proponendo comunque soglie molto alte: a Filosofia, per esempio, un massimo di 550 studenti, che comunque sono il doppio degli iscritti alla Sapienza di Roma e all’Alma Mater di Bologna. Ripeto, i limiti per l’accreditamento, che ci hanno portato a questa decisione, sono stati stabiliti dal ministero.
Siete stati accusati di attaccare il diritto allo studio, con il rischio di lasciare fuori gli studenti più poveri.
Io credo che anche agli studenti più disagiati convenga che l’università che frequentano, soprattutto se pubblica, abbia una reputazione migliore e che i loro studi siano di qualità migliore. E la qualità è migliore se i professori non hanno troppi studenti da seguire, se gli spazi sono adeguati. Se le risorse sono adeguate.
Ma invece di ridurre gli studenti, potevate aumentare i docenti.
Lo faremmo molto volentieri, ma non dipende da noi: la nostra possibilità di reclutare nuovi insegnanti è regolata dai blocchi del turn-over, che solo dal prossimo anno dovrebbe tornare al 100 per cento. E poi, che ipocrisia: perché questo argomento viene sollevato ora per le facoltà umanistiche, e con questi toni da apocalisse, non vale per tutte le altre facoltà, da cui escludiamo ogni anno centinaia e centinaia di ragazzi che restano fuori? Perché Filosofia sì e Biologia no, che è dovuta scendere da 800 a 250 iscritti l’anno?
Forse perché le facoltà umanistiche sono considerate un sapere non tecnico, “inutile”, meno legato alla scelta di un mestiere, che deve restare aperto a tutti semplicemente per offrire una formazione culturale.
Nel nostro Paese c’è un forte pregiudizio culturale positivo sulle discipline umanistiche, considerate “superiori” alle altre, quasi fossero la sola, vera cultura. Io non credo a questa superiorità, ma non è questo il punto: io devo gestire l’intero ateneo, distribuendo le risorse che ho per tutte le facoltà. Non posso privilegiare alcune facoltà rispetto ad altre; e non l’ho fatto, in questi anni. Per sostenere i numeri dello scorso anno, avrei bisogno di 30 docenti in più nelle sole nelle aree umanistiche. E di nuovo, perché rispondere al diritto soggettivo di chi vuole iscriversi a filosofia, e non di chi aspira ai corsi di agraria?
Spesso ci lamentiamo che i laureati in Italia sono troppo pochi rispetto agli altri Paesi europei, ma poi invece di farli crescere introduciamo il numero chiuso.
Ben venga l’aumento dei laureati! Ma con risorse adeguate, e in tutte le discipline. Perché ci sono proteste soltanto contro il numero programmato per le umanistiche? Non dimentichiamo che ogni studente costa e pesa sulla fiscalità generale. Perché dunque tenere impegnate risorse per studenti che si iscrivono e poi, in gran numero, non vanno a lezione e non danno esami? Ma poi accettare tutti non serve nemmeno ad aumentare il numero dei laureati. In Italia su cento immatricolati ne arrivano alla laurea solo 55 e il 18 per cento abbandona dopo il primo anno, proprio perché sbaglia scelta e non sa cosa richiede la facoltà in cui si è iscritto. Certo, occorre migliorare le attività di orientamento; occorre anche differenziare e progettare nuovi corsi, andrebbe affrontato e risolto il tema delle lauree professionalizzanti. Ma qui e ora, i numeri sono pesanti. Con il risultato che, per esempio, nelle facoltà umanistiche abbiamo il numero di esami più basso della media, oltre il 25 per cento di abbandoni dopo il primo anno, e un terzo degli iscritti che dopo nove anni non si è ancora laureato. Il numero programmato che abbiamo introdotto lo scorso anno a Scienze politiche – senza sit-in, flash-mob, accuse di decretare la morte dell’università, della crescita culturale del Paese – ha invece già dato buoni risultati: ci sono meno abbandoni e più esami sostenuti.
C’è stato anche chi ha messo in correlazione l’introduzione del numero chiuso con la vostra decisione di spostare le facoltà scientifiche sull’area Expo.
Sì, è tutto un complotto della Cia. La connessione è bizzarra, visto che l’idea del Campus risale a due anni fa, e soprattutto perché, come ho detto, le università non sono affatto autonome nel reclutamento dei docenti e la quantità di turn-over dei docenti che ci è stata concessa è sempre stata utilizzata. Le cose sono molto più semplici. Da anni stavamo cercando soluzioni che ci consentissero una ristrutturazione radicale delle nostre sedi in Città Studi, dove sono concentrate le attività delle facoltà scientifiche, Agraria, Farmacia, Biologia, Matematica, Fisica e tutte le altre. Abbiamo fatto i conti e visto che la ristrutturazione sarebbe costosissima, poco meno di una nuova edificazione, ovviamente tutta a carico nostro e manterrebbe inalterati i problemi di strutture disperse nel territorio e che non sono più adatte per svolgere attività di ricerca avanzata. Ci siamo convinti che la costruzione di un nuovo Campus nell’area Expo sia la soluzione più efficiente, più razionale, in grado di consentirci enormi risparmi di spesa, ma soprattutto inserita in un contesto positivo per la presenza di attività di formazione, di ricerca, di applicazione industriale. E certo, anche perché questa soluzione ha un sostegno economico importante – 130 milioni – da parte di Regione Lombardia e governo. Altro che complotto!