Mafia del Brenta, il sangue e l’onore del boss
Lo ha gridato più volte: “Te copo, te copo!”. Poi il coltello è affondato nella carne. E Alessandro Lovisetto è caduto a terra, con il collo che si apriva come un fiore rosso scarlatto. Silvano Maritan ha guardato ancora una volta quel suo coltello con lama, cacciavite, apribottiglia, cavatappi. Utile per molti lavori. Anche quello fatale di punire lo sgarro di chi aveva osato mettere gli occhi sulla sua donna. “Te copo”. Era domenica sera quando il coltello di Maritan ha fatto il suo ultimo lavoro, vicino al Caffé Letterario di piazza Indipendenza. A San Donà di Piave lo conoscono tutti, Maritan. A 69 anni ha una fama consolidata di boss. La mafia del Veneto orientale, la chiamano. La Mala del Brenta.
Ricordate la banda di Felice Maniero, detto “faccia d’angelo”? La sua Mala del Brenta era un’originale declinazione al nord del modello criminale sperimentato con successo pluricentenario nelle regioni del sud. La linea della palma (come la chiamava Leonardo Sciascia) salita fin nell’operoso Veneto dei capannoni e del casinò. Un buon modello di business che si esporta. I cambisti del casinò di Venezia, per dire, pagavano a Felicino una stecca di un milione e mezzo di lire al giorno e tutto procedeva liscio come l’acqua della laguna senza motoscafi. Certo, c’erano degli inconvenienti: se un ricettatore faceva il furbo (come un tale Gianni Barizza, che si tenne una parte del bottino) finiva incaprettato.
La galera era un momento di passaggio. Felice evase ben due volte. Dal carcere di Fossombrone e da quello di Padova. Quasi tre: dal carcere di Vicenza ci provò, promettendo 80 milioni di lire ciascuno a due guardie penitenziarie che però all’ultimo si pentirono e avvertirono il direttore. Dopo anni di latitanza, un’ennesima cattura e una condanna a 33 anni, è Maniero a farsi pentito, per iniziare una nuova vita da imprenditore di successo. Ebbene: quando era al gabbio, rinchiuso a Fossombrone, il bastone del comando era passato proprio a Silvano Maritan, diventato reggente della banda. È in quel periodo che il gruppo ruba la teca con il mento di Sant’Antonio da Padova, per ricattare lo Stato con la preziosa reliquia.
Maritan il reggente, l’uomo che ha inventato lo spaccio di cocaina sul litorale veneziano, entra presto in rotta di collisione con Felicino. Prima che si facesse pentito e contribuisse a sgominare la sua stessa organizzazione. Racconta che già nel 1994 aveva mezza intenzione di dar retta ad alcuni componenti della banda che volevano far fuori Maniero. Il boss della Mala del Brenta era latitante dopo la fuga dal carcere di Padova, ma i suoi uomini non si fidavano più di lui. Temevano facesse quel che poi davvero farà: vendere i compagni per garantirsi la salvezza. Alcuni, che avevano imparato bene la sua lezione, avevano deciso di ammazzarlo. Maritan era il candidato a prendere il posto del capo. Poi l’operazione di ristrutturazione del business non si fece, perché Maniero, a sorpresa, venne arrestato a Torino.
Pochi mesi dopo, nel febbraio 1995, “faccia d’angelo” divenne collaboratore di giustizia e fece arrestare molti della sua banda. Maritan si mangia le mani, per non aver fatto in tempo a farlo tacere: lo racconta anche a History Channel, in un documentario che racconta la vera storia della Mala del Brenta. È un infame da far fuori: “Lo ammazzerei a mani nude, sbattendogli la testa su uno spigolo”. Eppure Maritan non se la può prendere con Maniero, se è stato messo in galera, nel 1991, per traffico di droga: con il suo arresto, “faccia d’angelo” non c’entra. Ma non importa, Felicino ha ormai la colpa di ogni male, agli occhi dei suoi vecchi sodali. Ha coinvolto molti innocenti, dicono. O quasi innocenti. Come Gilberto Sorgato detto Caruso: “Non so perché mi abbia tirato in ballo per una storia di droga”, dichiara nel documentario di History Channel. O come Alessandro Rizzi: “Chi si credeva di essere? Veniva a fare rapine qui a Venezia, che è casa mia, e pretendeva di comandare”. Maniero gli ha fatto fuori due fratelli, Maurizio e Massimo. Ma i due a loro volta avevano fatto fuori Giancarlo Millo, detto “il Marziano”, senza chiedere l’autorizzazione al capo. Così avevano firmato la loro condanna a morte.
Quella volta aveva rischiato anche Silvano Maritan: Maniero si era convinto che c’entrasse anche lui nella decisione di uccidere “il Marziano”. Chissà cosa è vero e cosa è falso, nella grande ditta del Brenta trasformatasi in grande faida. Ormai tutti accusano tutti e la droga e i cadaveri si mischiano in un grande ballo di morte. L’unico che resta grato a “faccia d’angelo” è Giuseppe Di Cecco, ex brigatista rosso: è evaso dal carcere di Fossombrone, nel dicembre 1987, insieme a Maniero, con una fuga da film, attraverso le vecchie fognature sotto le celle.
Dell’omicidio di Alessandro Lovisetto, però, Maritan non potrà accusare né Maniero né nessun altro: quel coltello multiuso gliel’ha infilato proprio lui nel collo, domenica sera, a San Donà di Piave.