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Sala. Come nasce un politico nell’era dello storytelling

Sala. Come nasce un politico nell’era dello storytelling Foto Piero Cruciatti / LaPresse 07-02-2016 Milano, Italia Politica Spoglio delle primarie amministrative del centrosinistra a Milano Nella foto: Giuseppe Sala Photo Piero Cruciatti / LaPresse 07-02-2016 Milano, Italy Politica Scrutiny of the primary mayoral elections for the centreleft candidate In the Photo: Giuseppe Sala

Expo, ovvero la politica ai tempi dello storytelling. L’esposizione universale – o meglio, la narrazione dell’esposizione universale – sta imprigionando come un sortilegio la politica italiana. Expo Milano 2015 è diventata l’icona renziana dell’Italia che riparte e della Milano che decolla. Poco importa che, nella realtà, l’Italia non riparta e che Milano abbia avuto dall’evento giovamenti assai limitati: ciò che conta non sono i fatti, ma la narrazione. Sull’onda di quella narrazione, ora a Milano è stato candidato sindaco per il centrosinistra Giuseppe Sala, che dell’esposizione è stato il commissario unico: Expo si fa politica.

Ecco dunque come nasce un politico nell’epoca dello storytelling.

Giuseppe Sala, bocconiano e manager

Giuseppe Sala detto Beppe è nato a Milano nel 1958. Si laurea in Economia e commercio all’Università Bocconi nel 1983, agli albori del mito della Bocconi come fabbrica di yuppie alla milanese. Va subito a lavorare in Pirelli, dove ricopre diligentemente una serie d’incarichi nelle aree del controllo di gestione, della pianificazione strategica, della valutazione degli investimenti, della gestione di nuove iniziative di business. Fa i conti, insomma, e cerca di farli quadrare. Nel 1994 diventa direttore controllo di gestione e pianificazione strategica di Pirelli Pneumatici, nel 1998 viene nominato amministratore delegato della società Pirelli Pneumatici e tre anni dopo, nel 2001, è Senior Vice President Operations, responsabile delle strutture industriali e logistiche. Il capo dei capi, Marco Tronchetti Provera, prende il manager sotto la sua ala e ne fa una sorta di assistente del presidente.

Nel 2002, Tronchetti è preoccupato per la guerra che dentro la controllata Telecom si stanno facendo l’amministratore delegato Riccardo Ruggiero e il vicepresidente Carlo Buora. Cerca di usare Sala come truppa d’interposizione tra i due e lo manda a fare lo Chief Financial Officer di Tim, poi l’assistente del presidente in Telecom Italia e infine il direttore generale di Telecom Italia Wireline. Sala però gioca in proprio e si schiera con Ruggiero. Diventa, nel 2005, direttore generale della società che nasce dalla fusione tra Telecom Italia e Tim. Vive dall’interno la stagione delicatissima che sarà poi oggetto dell’inchiesta giudiziaria sui dossieraggi Telecom, ma senza restarne sporcato: tutte le responsabilità, del resto, sono buttate sul “cattivo” del momento, il capo della sicurezza Giuliano Tavaroli.

In Telecom, Sala è un omino grigio che si occupa dei conti. Ma pagato benissimo. Lo ricostruiscono Gianni Dragoni e Giorgio Meletti nel libro La paga dei padroni. Nel 2003, da direttore generale, guadagna 565 mila euro, nel 2004 balza addirittura a 3 milioni e 91 mila euro: un aumento del 447 per cento, grazie a uno strepitoso bonus del quale le note al bilancio non danno alcuna spiegazione. Nel 2005 scende un po’, a 2 milioni e 488 mila euro, incassando, si legge nel bilancio, “compensi erogati a titolo di Management by Objectives (Mbo), di Long Term Incentive (Lti) e di rata relativa al piano di retention”. La prima voce vuol dire che ha raggiunto gli obiettivi fissati, le due successive significano che Telecom gli ha dato molti soldi anche per convincerlo a restare fedele all’azienda. Sforzo vano: all’inizio del 2006 Sala se ne va, incassando però 5 milioni e 680 mila euro, di cui 3 milioni di euro come buonuscita. Dunque: Telecom ha dato a Sala 1 milione e 700 mila euro nel 2005 per farlo restare; e 3 milioni all’inizio del 2006 per farlo andare via. Sublime.

L’uomo dei conti incontra la politica

Uscito da Telecom, tra il 2007 e il 2008 fa il consulente. Fonda la Medhelan Management & Finance, di cui è presidente. È anche Senior Advisor per Nomura. Ma nei suoi ultimi anni dentro Telecom ha stretto rapporti politici (per lo più a destra) che gli valgono la chiamata, nel gennaio 2009, a fare il direttore generale del Comune di Milano, ormai la più grande azienda della città. Sindaco allora, per il centrodestra, è Letizia Moratti e l’uomo che lo fa entrare a Palazzo Marino come capo dell’amministrazione è Bruno Ermolli, il gran consigliere di Silvio Berlusconi, silenzioso kingmaker che presidia in città gli invisibili incroci tra alta politica e grandi affari, l’uomo invisibile che per conto del leader del centrodestra sceglie i manager da piazzare nelle aziende pubbliche.

Un anno dopo, Expo è alla disperazione. Sta per collassare a causa dei litigi tra i politici e per colpa della inconcludente gestione dell’ex ministro Lucio Stanca. Nel giugno 2010, a due anni dall’assegnazione dell’evento a Milano, l’esposizione non ha ancora mosso un solo passo, non ha aperto un solo cantiere, non ha indetto una sola gara (e in compenso ha già speso 40 milioni di euro). Allora è sempre Ermolli a sussurrare al sindaco Moratti il nome del manager a cui affidare la mission impossible di salvare l’operazione: è Giuseppe Sala. Lui accetta la sfida. Lascia la poltrona di city manager e nel giugno 2010 si trasferisce a Expo.

Si mette al lavoro. Taglia un po’ di costi. Trasferisce la sede di Expo 2015 spa dal costosissimo Palazzo Reale, preteso da Stanca che voleva la vista sul Duomo, a via Rovello, sopra la gloriosa vecchia sede del Piccolo Teatro fondato da Giorgio Strehler. E dà finalmente il via alla macchina che deve realizzare l’esposizione.

Un anno dopo, quando nel maggio 2011 Giuliano Pisapia, a sorpresa, batte Letizia Moratti al ballottaggio e diventa sindaco di Milano, Sala viene confermato anche da Pisapia amministratore delegato di Expo spa: è il manager della continuità per un evento già in grave ritardo. L’uomo è bipartisan, proprio come l’operazione Expo. Il suo nome è nell’agenda del berlusconiano Ermolli, lavora con Letizia Moratti (con la quale ha però qualche contrasto), ma ha buoni rapporti anche con gli ambienti moderati del centrosinistra. Tanto che nel maggio 2013 l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta (Pd) lo nomina anche commissario unico delegato del governo per Expo.

Caduto Letta, dopo un ineffabile “Enrico stai sereno”, arriva Matteo Renzi che “ci mette la faccia” e si assume l’impegno di fare di Expo l’icona della riscossa italiana: il compito operativo lo affida a Sala, che beve l’amaro calice. Mica gratis. Sala a Expo riceve un compenso di 430 mila euro all’anno (dati della Corte dei conti del 2013), raggiunto sommando il compenso come consigliere d’amministrazione (27 mila), quello di amministratore delegato (270 mila parte fissa, 126 mila parte variabile in base ai risultati ottenuti) e i rimborsi spese (7 mila). La “riforma” di Renzi del 1 aprile 2014, che introduce un tetto (300 mila euro) ai compensi dei manager pubblici, per Sala è un pesce d’aprile, per lui – ma anche per tanti altri – non vale. Nei sei anni in cui ha fatto l’amministratore delegato di Expo spa, porta a casa oltre 2 milioni di euro.

La banda dell’Ortica

L’omino grigio di successo, comunque, si rimbocca le maniche e nell’estate 2011 fa partire le gare. Cominciano così tre anni di passione, lacrime, sudore, sangue e manette. Sala diventa l’highlander che sopravvive, solo, a tutti i suoi manager che uno dopo l’altro vengono portati via. Il primo è Antonio Rognoni, il potentissimo capo di Infrastrutture Lombarde, su cui Expo si appoggiava per gli appalti. Viene arrestato il 20 marzo 2014. Il giudice delle indagini preliminari Fabio Antezza scrive che Sala “aveva di fatto delegato il vero ruolo all’ingegner Rognoni, dal quale riceveva costanti suggerimenti (…) e con il quale prendeva le decisioni”.

Il secondo è Angelo Paris, l’uomo che gode dell’assoluta fiducia di Sala, il suo braccio destro che, come General manager constructions e responsabile acquisti, è il più potente dirigente operativo di Expo. Finisce in manette l’8 maggio 2014, insieme al gatto e alla volpe della Prima Repubblica, Gianstefano Frigerio e Primo Greganti. È accusato di essersi “messo a disposizione” della “cupola degli appalti” di Expo, di far parte di un’associazione a delinquere che condiziona i lavori e trucca le gare d’appalto.

Il terzo a cadere è Antonio Acerbo, subcommissario di Sala delegato alle infrastrutture, nonché responsabile del Padiglione Italia e delle vie d’acqua. Di fatto, il numero due di Expo spa. Viene arrestato il 14 ottobre 2014, con l’accusa di aver favorito la Maltauro e un’azienda associata, la Tagliabue, in cambio di 300 mila euro in consulenze chiesti per il figlio. Lo stesso giorno, scattano le manette per Andrea Castellotti, facility manager di Palazzo Italia.

Il quinto ad avere problemi è Pietro Galli, direttore generale vendite, marketing e gestione dell’evento, l’uomo di Sala che gestisce i sei mesi di esposizione: viene segnalato dal presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, perché è stato in passato condannato per bancarotta. Sala non si scompone: domanda chiarimenti a Galli e poi decide di riconfermargli la fiducia – era tanto tempo fa e poi la cifra era piccola. Infine tocca a Christian Malangone, il manager più operativo della sua squadra, direttore generale di Expo 2015: condannato a 4 mesi di reclusione, in rito abbreviato.

Giuseppe Sala l’highlander – “ne resterà soltanto uno” – ha visto cadere uno dopo l’altro tutti i manager che aveva attorno a sé a Expo. Inquisiti, arrestati, condannati, i magistrati e i carabinieri glieli hanno portati via dalla stanza dei bottoni dell’esposizione universale. Sala è restato inossidabile, inscalfibile, pronto ogni volta a esprimere il suo stupore per quel che gli succede intorno. Frodi? Tangenti? Gare truccate? Faccendieri? Boss mafiosi? Non gli risulta, non se n’era accorto. Ogni volta che scatta un arresto, Sala è costernato. Subito dopo le manette a Paris, dice: “Alzi la mano, qui, chi aveva dubbi su Paris”. La colonna sonora potrebbe essere una vecchia canzone di Enzo Jannacci, Faceva il palo nella banda dell’Ortica. Il centrosinistra milanese ha (giustamente) chiesto le dimissioni del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, a cui è stato arrestato un collaboratore, Fabio Rizzi. Contemporaneamente, ha candidato sindaco di Milano Sala, a cui di collaboratori ne sono stati arrestati quattro.

Poi scatta quella che qualcuno ha chiamato la “moratoria Expo”: la Procura di Milano, dopo il conflitto tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo (sconfitto e trasferito dal Csm a Torino), smette di fatto d’indagare sull’esposizione, lasciando che l’evento si svolga senza altri scandali. Renzi ringrazia: “L’Expo non doveva esserci, ma si è fatta grazie a Raffaele Cantone e a Sala, grazie a un lavoro istituzionale eccezionale, grazie al prefetto e alla Procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda con sensibilità istituzionale”. Che cosa sia la “sensibilità istituzionale”, per una Procura della Repubblica, non è chiarissimo, in un Paese in cui l’azione penale è obbligatoria e non rinviabile.

La fiera della deroga

Expo è stata la fiera della deroga, la sagra della discrezionalità. A dirlo è il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, nella sua audizione del 18 febbraio 2015 davanti alla commissione Lavori pubblici del Senato: il codice degli appalti, così farraginoso, secondo il presidente dell’Anticorruzione, “ha giustificato, nella pratica, il ricorso frequente a normative speciali con la previsione di deroghe soprattutto per alcune grandi opere pubbliche; emblematico è il caso del grande evento Expo Milano 2015, per la realizzazione del quale le ordinanze del presidente del Consiglio e successivamente una legge ad hoc hanno introdotto la possibilità di derogare a ben 85 articoli del codice!”.

La gran parte degli appalti Expo è stata affidata senza gara. Sono 170 gli appalti su cui ha avuto da eccepire l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp), poi confluita nell’Autorità anticorruzione (Anac) affidata al magistrato Cantone proprio per cercare di mettere un freno al malcostume di Expo. L’Anac ha contestato 138 appalti e ha duramente criticato la gestione e la scarsa trasparenza nella obbligatoria pubblicizzazione di dati, bandi e contratti Expo: in un incredibile e interminabile elenco di rilievi mossi alla gestione Sala. Eccone alcuni (il documento completo, del 19 dicembre 2014, è scaricabile qui: http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/Expo2015/_expo?id=76bdaea90a7780424e52e4d2cbbbde64).

“Non è presente un elenco dei bandi espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnato dall’indicazione del numero dei dipendenti assunti e delle spese effettuate”. “La Corte raccomandava la definizione di criteri predeterminati di valutazione al momento dell’avviso di ricerca del personale, aperto all’esterno e con il relativo punteggio, nonché con possibilità di accesso informativo, da parte dei candidati, alle graduatorie finali. Questa tipologia di informazioni non è rintracciabile nella sezione amministrazione trasparente”. “La pubblicazione dei dati relativi a autorizzazioni e concessioni è prevista dalla legge (…). Nessun riferimento a questa tipologia di informazioni è rintracciabile”. “Nelle tabelle contenute in ‘Amministrazione trasparente’ mancano: struttura proponente, importo di aggiudicazione (…) e i contratti sotto i 40 mila euro”.

“I contratti nell’elenco non riguardano solo il 2014 ma alcuni si riferiscono agli anni 2012 e 2013. Questo produce confusione (…). Non sono presenti: elenco degli operatori inviatati a presentare le offerte; tempi di completamento dell’opera, servizio o fornitura; importo delle somme liquidate. Spesso sono assenti i dati sulla data di stipula e sulla data di fine del contratto”. “Non sono pubblicati dati relativi ad anni precedenti al 2012 di cui dovrebbero, almeno, essere pubblicati gli avvisi e i bandi (…). Complessivamente, la sottosezione ‘bandi di gara e contratti’ non contiene tutti i dati previsti dalla norma”. “La sottosezione ‘sovvenzioni e contributi’ risulta costituita ma non contiene i criteri e le modalità con cui Expo 2015 spa concede sovvenzioni (…). I dati non sono pubblicati. (…) Complessivamente, la sottosezione ‘sovvenzioni e contributi’ non sembra contenere tutti i dati previsti dalla norma”. “Non risultano pubblicati i bilanci come approvati dall’assemblea dei soci”.

Soldi a pioggia

Expo ha distribuito soldi a pioggia: ad aziende, associazioni, professionisti, artisti – che ora sono naturalmente grati al manager diventato politico. Particolarmente incisivi i soldi Expo dati ai media. In comunicazione sono stati spesi oltre 50 milioni di denaro pubblico. Una parte di questi è andata, senza gara, direttamente a giornali e tv. Non solo per pagare la normali inserzioni, gli spot e le pagine pubblicitarie, ma per garantire, nelle pagine redazionali dei giornali e nella programmazione televisiva, sostegno e “massima visibilità” a Expo. Solo qualche esempio: 500 mila euro al Corriere della sera, attraverso la sua Fondazione; altrettanti a Repubblica, attraverso la sponsorizzazione della sua iniziativa “la Repubblica delle idee”; 310 mila euro all’Ansa; 64 mila euro al gruppo Sole 24 Ore; 85 mila euro al Foglio di Giuliano Ferrara; alla Rai è arrivata la cifra record di 5 milioni.

Sala ha affidato senza gara anche il più importante appalto nel settore ristorazione, cuore di Expo: ha concesso a Eataly di Oscar Farinetti, grande amico e finanziatore del presidente del Consiglio Renzi, la gestione “del più grande ristorante del mondo”, 8 mila metri quadrati in cui, in realtà, Farinetti si è limitato a chiamare 120 ristoratori italiani, scelti a suo insindacabile giudizio, per far funzionare a rotazione, nei sei mesi dell’esposizione, 20 ristoranti regionali che hanno fruttato a Eataly un incasso di 29 milioni di euro. Dopo alcuni articoli del Fatto quotidiano che raccontavano l’affidamento diretto, Cantone lo ha contestato a Sala e, avendo “ritenuto non del tutto soddisfacenti le spiegazioni ricevute”, lo ha segnalato alla Procura di Milano.

L’inchiesta, molto riservata, è stata condotta senza neppure interrogare Sala, così da non avere l’obbligo di notificargli un avviso di garanzia. Si è chiusa il 12 gennaio 2016 con un’archiviazione firmata dal capo dei gip di Milano Claudio Castelli, che aveva riservato a se stesso il fascicolo (Castelli è uno dei magistrati che più si era dato da fare per la gestione dei fondi Expo assegnati – anche questi in gran parte senza gara – dal ministero della Giustizia per il palazzo di giustizia di Milano). Archivia Sala perché non ravvisa l’“elemento psicologico” che farebbe scattare il reato di abuso d’ufficio. Sala certamente “ha assicurato” a Farinetti “condizioni economiche particolarmente vantaggiose” e “di maggior favore” se “paragonate a quelle più rigorose” per gli altri operatori della ristorazione: a questi viene chiesto il 12% sugli incassi, a Farinetti solo il 5%, con Expo che si accolla anche le spese per elettricità, acqua, “allaccio dei servizi” e perfino i “costi sostenuti da Eataly per le celle frigorifere (50 mila euro)”. Eppure, secondo il giudice, “anche in presenza di un indiscutibile vantaggio contrattuale per Eataly, non è dimostrabile che Sala abbia agito intenzionalmente per procurare un vantaggio ingiusto” a Farinetti.

Un affidamento minore, di importo ridotto, ma emblematico della disinvoltura con cui il commissario gestisce i soldi pubblici, è quello a Skira, casa editrice di libri d’arte, di proprietà dell’amico Massimo Vitta Zelman. Expo paga a Skira, nel 2014, 30 mila euro per la realizzazione del volume – la cui utilità per Expo è sconosciuta, così come le vendite – La piazza imbandita. Qualche mese dopo, Skira pubblica un libro scritto da Sala in persona: Milano sull’acqua. È il testo-base della promessa di “riaprire i Navigli” fatta dal candidato Sala nella sua campagna elettorale. Skira dichiara che non sono stati riconosciuti compensi all’autore; si tratta comunque di uno scambio di cortesie a base di soldi pubblici che è perlomeno inelegante.

Se questo è un manager

Sala ha goduto di poteri speciali, grazie alle deroghe concesse per un evento che, pur prevedibilissimo – si chiama Expo Milano 2015, con la data già compresa nel nome – è stato considerato come un’emergenza, un’alluvione, un terremoto. Eppure Sala è andato perfino oltre i suoi poteri, già così ampi. Per poter affidare grandi incarichi senza gara, li ha frazionati in piccoli incarichi concessi alla stessa persona o alla stessa azienda, aggirando la regola che impone la gara pubblica per le cifre superiori ai 40 mila euro. Così succede con l’architetto Michele De Lucchi, autore del Padiglione Zero, che ha avuto ad affidamento diretto, tra il 2012 e l’inizio del 2013, un totale di 110 mila euro suddivisi in tre incarichi.

Poi De Lucchi è arrivato addirittura a quota 800 mila euro, incassati con un altro trucco: gli ulteriori pagamenti sono stati effettuati, con soldi di Expo, non da Expo, ma da Fiera Milano, società che ha un accordo con Expo ma, essendo di diritto privato, non ha obblighi di indire gare pubbliche. Lo stesso architetto è stato poi chiamato da Sala che gli ha fatto realizzare (a pagamento, per carità) una parte della sua villa al mare, a Zoagli, in una imbarazzante commistione tra incarichi privati e incarichi pubblici.

In Expo c’è un’intera area di “appalti grigi”: sono quelli di cui Sala si lava le mani perché triangolati (come nel caso dell’architetto De Lucchi) con altri enti: Fiera Milano (45 milioni), Regione Lombardia (37), Comune (70), Triennale (19), Esercito (17) e Italferr: in totale, oltre 120 milioni che Sala ha distribuito “a sua insaputa”.

Ha anche superato i poteri di spesa che aveva come amministratore delegato: fino a 10 milioni di euro. Nell’arco di due mesi, invece, ha firmato sette determine, tutte sotto i 10 milioni, con le quali però ha affidato a una società, la Mantovani, lavori per ben 34 milioni, più del triplo di quello che poteva fare. A raccontarlo è l’audit realizzato da due società di consulenza, Adfor e Sernet, che ricevono da Expo spa l’incarico di espletare gli obbligatori controlli sul più grande degli appalti dell’esposizione universale, quello sulla “piastra” (l’infrastruttura di base dell’area). L’audit del giugno 2014 allinea 15 osservazioni pesantemente critiche sulla gestione dell’appalto e fa a pezzi le tanto decantate capacità manageriali di Sala. L’amministratore delegato ha infatti sforato, come abbiamo visto, i suoi poteri di spesa: “alcune determine a contrarre opere complementari superano nell’insieme” la soglia dei 10 milioni e “sono assunte dall’ad, nell’arco temporale ristretto di circa due mesi, prima dell’informativa fornita in consiglio d’amministrazione” che “in modo cumulativo approva l’affidamento”. Il tutto condito con “inaccuratezze nella predisposizione delle determine”, “refusi nell’indicazione del valore massimo di spesa”, “riferimenti a documenti interni non presenti”.

L’audit segnala che le irregolarità iniziano fin dalla programmazione dei lavori, avviati senza i “documenti organizzativi” previsti dal codice degli appalti. Così, scrivono gli auditor, “si è dovuto procedere con affidamenti diretti alla Mantovani per recuperare il tempo perduto, sopportando maggiori costi”. Alla fine, gli errori di programmazione costano cari: ci sono “atti aggiuntivi per un importo di circa 40 milioni di euro”.

Tutta l’organizzazione dei lavori è un disastro, osservano gli auditor: “si rileva l’assenza di specifici mansionari per le figure dell’ufficio, che faciliterebbero la chiara definizione di ruoli, compiti e responsabilità, nonché la piena tracciabilità delle attività svolte”. Non risultano controlli “sulle progettazioni svolte da soggetti esterni” (Mm, Infrastrutture Lombarde, Fiera Milano), con la conseguenza di “errati computi metrici utilizzati per l’analisi dei prezzi”. “Nessuno all’interno di Expo ha controllato il computo metrico di scavi e fondazioni, opere caratterizzate da alto rischio di azioni corruttive”. Sono state inoltre “adottate in modo illegittimo delle deroghe all’applicazione del codice appalti”.

Gravissimo il rilievo sulla “inadeguata modalità di conservazione della documentazione di gara”: “è emerso che anche Ilspa disponeva della chiave dell’armadio” dov’erano conservate le carte, così “la graduatoria delle offerte qualitative poteva essere conosciuta, oltre che dalla commissione, anche da altro personale di Ilspa”.

L’audit segnala anche che il braccio destro di Sala, Paris (poi arrestato), non aveva neppure i requisiti professionali per fare il responsabile unico del procedimento: perché non aveva “alcuna precedente esperienza tecnica né in ambito privato né pubblico”; e perché, addirittura, non era ingegnere (“non risulta l’iscrizione all’Ordine” né il “superamento dell’esame di Stato”).

La vicenda più emblematica della leggerezza con cui è stato speso il denaro pubblico è quella dell’appalto per 6 mila alberi da piantare nel sito. Il contratto viene affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni: fatti i conti, sono 716 euro a pianta. Nel novembre successivo la Mantovani stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni: 266 euro a pianta. Quindi Sala ha pagato le piante quasi tre volte il loro valore. Spiega: a causa dell’urgenza; ma gli alberi, alla fine, sono stati piantati solo nell’autunno del 2014.

Trasparenza zero

Expo è stato un evento pubblico realizzato con denaro pubblico. Chi lo ha gestito aveva dunque dei doveri di trasparenza. Ma Sala lo ha condotto in perfetta opacità sia per quanto riguarda i numeri dei visitatori, sia per quanto riguarda i conti. Nei primi tre mesi, da maggio a luglio 2015, quando i visitatori erano molto al di sotto delle attese, ha nascosto i numeri degli ingressi e ha fatto filtrare alla stampa cifre gonfiate. Ha addirittura preteso che non fossero diffusi i numeri dei viaggiatori Atm sul metrò e della raccolta rifiuti Amsa, perché non fosse ricavabile il numero degli ingressi all’esposizione. La mancanza di trasparenza è stata poi coperta con una serie di giustificazioni contraddittorie e non credibili, visto che gli ingressi erano esattamente rilevati dai tornelli: a luglio, dopo aver dato una cifra, Sala spiega (attraverso un comunicato fatto diffondere dall’allora prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca) che “tale valutazione, pur basandosi sul controllo digitale ai tornelli, è caratterizzata da significativi livelli di incertezza e indeterminatezza”. Come mai? “A ciascuno dei varchi si manifestano situazioni operative differenziate, ricorrenti ma non riconducibili a un processo di verifica automatizzato degli accessi, che rendono difficile – se non impossibile – effettuare una rilevazione degli accessi effettivamente corrispondente al numero di persone presenti all’interno del sito espositivo”.

Ecco le “situazioni operative differenziate”: “La società Expo, quando si verificano picchi di afflusso, a volte permette l’accesso ai visitatori senza passaggio del biglietto sul lettore ottico, ma solamente ritirandolo; ciò è avvenuto, in modo particolare a maggio e giugno con l’ingresso mattutino delle scuole e sta avvenendo, a volte, in luglio per velocizzare gli ingressi ed evitare code sotto la calura anomala”. Ancora: “Sempre in funzione delle altissime temperature, viene riferito che si sono verificati problemi di lettura, in quanto gli apparati digitali nelle teste dei tornelli hanno subito malfunzionamenti mentre, in generale, si sono spesso registrati problemi tecnici di lettura dei biglietti su smartphone (codice a barre non rilevabile, luminosità insufficiente etc); infine, nei primi dieci giorni di maggio i sistemi di rilevazione hanno funzionato male e la società Expo ha riferito di avere conseguentemente perso i files di lettura degli ingressi”.

La società che ha fornito le apparecchiature ha seccamente smentito i malfunzionamenti, ma il commissario se la cava dicendo che ha addirittura perso i files. Per coprire le sue bugie ha affastellato scuse incredibili ed esilaranti con argomenti che si contraddicono tra loro. Dice Sala: non ho i numeri esatti degli ingressi. Uno: perché il caldo blocca i tornelli. Due: perché i tornelli li blocco io, per rendere più veloce l’entrata, quando sotto il caldo si formano code troppo lunghe.

A esposizione terminata, l’opacità si trasferisce su dati ancor più cruciali: quelli di bilancio. Quanti sono stati i biglietti effettivamente venduti e, soprattutto, a quale prezzo? Con quale incasso? Quanto hanno portato le sponsorizzazioni e le royalties? Quanto sono le spese? Quale il guadagno o la perdita finale? Quanto pesano sui conti le bonifiche non fatte, gli extracosti, i contenziosi, le penali? Invece di fornire i semplici dati di bilancio, Sala ha annunciato che il bilancio sarà reso pubblico ad aprile 2016 e intanto ha passato alla stampa un preconsuntivo da cui non si capisce nulla. La trincea in cui s’attesta è quella del patrimonio netto, positivo per 14,2 milioni. Il presidente del Consiglio comunale Basilio Rizzo gli ha ricordato che la Corte dei conti nel 2013 prevedeva che fosse di 135 milioni: “e ora festeggiamo per 14,2?”. Il consigliere comunale d’opposizione Manfredi Palmeri rincara la dose: “Il patrimonio era di 48 milioni nel 2014, ora è di 14,2: dunque c’è stata una perdita di 33,8 milioni, altro che risultato positivo”. La verità è che le cifre rese pubbliche da Sala sono poche e si lasciano tirare in ogni direzione. In verità, i soldi pubblici messi nell’operazione Expo sono, negli anni, 1,2 miliardi di euro che diventano 2 miliardi con le spese di gestione. Le entrate 2015, l’unico anno con entrate rilevanti, sono 736,1 milioni. Ecco dunque i veri contorni economici dell’evento.

Poi ci sono le tecnicalità del bilancio. Ma anche su queste, la nebbia è tutt’altro che diradata. La Corte dei conti ha già in passato censurato alcune manovre di bilancio, come l’aver iscritto come investimenti, cioè in conto capitale, alcune spese che invece sono andate alla gestione. Con il risultato che il vero costo della gestione Expo è di 960 milioni di euro e non 800 come si ostina a ripetere Sala. Il commissario ha ribadito che “i ricavi” 2015 sono 736,1 milioni (373,7 da biglietti, 223,9 da sponsorizzazioni, 138,5 da varie). Ma sono, appunto, “ricavi”, non incassi: 19,9 milioni di biglietti non sono ancora incassati; le sponsorizzazioni hanno portato in cassa solo 45,2 milioni, il resto è offerto “in beni e servizi”; e dai ricavi di sponsorizzazioni e varie mancano all’appello 51,4 milioni ancora da incassare. Se si aggiungono le partite ancora sospese (extracosti, contenziosi, bonifiche…) il risultato finale è una perdita d’esercizio di almeno 200 milioni. A questo si deve aggiungere un’ulteriore constatazione: il commissario mette a bilancio 86,4 milioni che dovranno arrivare da Arexpo (che possiede le aree) per infrastrutturazione, espropri, bonifiche. Ma Arexpo, se mai pagherà, lo farà sempre con soldi pubblici (cioè nostri), visto che soci determinanti sia di Expo sia di Arexpo sono Comune di Milano e Regione Lombardia.

Se questa è la trasparenza e lo stile di lavoro di Sala alle prese con un piccolo bilancio da 800 milioni, che cosa succederà se mai dovesse occuparsi del bilancio da 5 miliardi del Comune di Milano? Da sindaco, poi, diventerebbe controllore di se stesso, quando dovrà valutare il bilancio di Expo, in un inestricabile nodo di inopportunità e conflitti d’interesse.

Antimafia e anticorruzione

Sala ha usato Raffaele Cantone come parafulmine anticorruzione di Expo. “C’era lui a cui mandavamo tutti gli atti”: dunque questo solleva il commissario da ogni responsabilità. Come se la legalità fosse per intero appannaggio di un solo uomo, specializzato nel ramo. Come se il commissario unico e amministratore delegato di un’operazione pubblica non avesse doveri in proprio e non dovesse avere, oltre al rispetto del codice penale, anche una cultura istituzionale e una sensibilità alla legalità. Non pervenute. Sala rifiuta, malgrado le ripetute richieste del presidente della Commissione comunale antimafia David Gentili, di dotare anche Expo del “Whistleblowing”, la possibilità per i dipendenti pubblici di denunciare in via riservata, ma non anonima, qualsiasi attività sospetta di corruzione o altro reato contro la pubblica amministrazione. È uno strumento suggerito da Transparency International, raccomandato dalla Convenzione Onu contro la corruzione del 2003, già adottato da 16 Paesi dell’Unione Europea e, in Italia, dallo stesso Comune di Milano che lo ha nominato nel cda di Expo. Lui lo rifiuta, scambiandolo evidentemente per “delazione”: “Mi sembra un’asimmetricità che non capisco, che uno possa permettersi in maniera anonima di fare una denuncia, mentre dall’altra parte c’è chi ci mette la faccia”.

Nella gestione quotidiana, mostra insensibilità e scarsa attenzione ai controlli, anche nel campo delicatissimo delle possibili infiltrazioni mafiose nei cantieri Expo. Lo segnala, nelle sue relazioni semestrali, il Comitato antimafia milanese presieduto dal professor Nando dalla Chiesa. Già la prima relazione (agosto 2012) denuncia “l’assoluta opacità della fase successiva all’aggiudicazione dei lavori, con la frequentissima approvazione delle varianti, l’ammissione delle ‘riserve’, le proroghe dei termini di esecuzione con la richiesta di maggiori oneri, il pagamento sollecito o meno degli stati di avanzamento, la liquidazione finale”, tutti “argomenti e materia di contrattazione e comunque sottratti alla visibilità degli interessati”. La relazione raccomandava il controllo dei cantieri, con visite a sorpresa, per individuare azioni a rischio mafia “come il trasporto abusivo di terra e di materiale da discarica”. Sala fa orecchie da mercante: gli accessi ai cantieri sono soltanto uno nel periodo agosto-dicembre 2012 e appena tre in tutto quell’anno, cruciale per i cantieri Expo.

La quinta relazione viene consegnata al sindaco ad agosto 2014, dopo appena quattro mesi dalla precedente, perché “è originata da una ragione di urgenza”. I toni sono allarmati: “Se il Comitato ha ritenuto di investirne il sindaco e di lanciare in questo modo un meditato allarme alla opinione pubblica cittadina è perché è venuto a conoscenza per ragioni del suo ufficio di fatti che disegnano una situazione per molti aspetti inquietante. Una situazione abbastanza diversa da quella ripetutamente rappresentata in ritratti rassicuranti, secondo i quali l’unico problema di Milano Expo 2015 sarebbe quello di realizzare in tempo i padiglioni previsti sull’area espositiva. È accaduto che nel corso degli ultimi mesi si siano manifestati i segni concreti dell’incombenza di interessi di ambienti mafiosi, più particolarmente ’ndranghetisti, sui lavori che riguardano e accompagnano la preparazione dell’evento Expo 2015”.

Sala continua a far finta di non sentire. Intanto la terza relazione del Comitato (febbraio 2014) è stata subito segretata e inviata in Procura, dove ha dato origine a una inchiesta antimafia, ancora in corso a Milano.

La sesta relazione (aprile 2015) viene invece in parte trasmessa alla Procura della Corte dei conti, dopo che il Comitato aveva chiesto chiarimenti a Expo e non aveva ricevuto alcuna risposta. Lo stralcio riguarda due affidamenti Expo ritenuti anomali: sono due contratti per la realizzazione di Sigexpo, cioè la “piattaforma gestionale per adempiere alle richieste delle Linee Guida Antimafia per protocollo di legalità”, e affidati senza gara nel 2012 a Bentley Systems Italia srl e a Opera 21 spa. “Il Comitato si rammarica”, scrive l’organismo presieduto da Dalla Chiesa, “per avere dovuto constatare come, anche davanti a richiesta formale del Delegato del Commissario Unico di Expo 2015, nonché responsabile delle Relazioni istituzionali del Comune, tali rapporti di consulenza antimafia siano risultati inaccessibili allo stesso organo nominato dal Sindaco per contrastare le organizzazioni mafiose”.

L’opacità della gestione Sala, dunque, si esercita perfino negli affidamenti per realizzare la piattaforma informatica che dovrebbe garantire la trasparenza degli appalti e rendere più difficili le infiltrazioni mafiose. La prima versione di Sigexpo viene realizzata da Opera 21 (azienda di area Cl) che ottiene l’incarico a trattativa privata, senza gara. La piattaforma viene consegnata alla Prefettura di Milano che la mette in funzione nell’aprile 2012, ma si rende subito conto che non funziona. Lo comunica a Expo con ripetuti interventi che restano tutti senza risposta. Intanto Opera 21 fallisce e viene rilevata da un’altra azienda, la Top Network. Per cercare di far funzionare Sigexpo, viene intanto utilizzata la piattaforma Genesis, fornita gratuitamente alla Prefettura dalla società Pegaso (che già lavorava per Teem, la tangenziale est esterna milanese, classificata opera Expo). Expo toglie l’incarico a Opera 21 (intanto passata a Top Network) e lo affida temporaneamente, senza gara, alla Witt. A fine maggio 2014, Expo predispone un nuovo bando a chiamata che esclude Pegaso (che era già al lavoro) e incarica la Top Network.

“Il Comitato ritiene preoccupante che la società abbia reiterato la realizzazione di pratiche opache proprio nell’ambito di un ri-affidamento di un lavoro che era risultato scarso rispetto ai costi sostenuti e che aveva pertanto comportato un evidente spreco di denaro pubblico. Il Comitato ha ritenuto doveroso rendere pubblica la cronistoria dell’insufficiente risposta della società Expo per ribadire la necessità da parte delle società a partecipazione pubblica di sottoporsi a doverosi meccanismi di accountability”.

Il salto verso la politica

Tutto quello che fin qui avete letto è stato scritto e reso pubblico, nei mesi di Expo e in quelli successivi. Senza alcuna smentita, né replica chiarificatrice che riuscisse a demolire l’immagine di Sala che ne esce: quella di un manager che ha gestito Expo in maniera opaca, poco trasparente, non senza errori manageriali (vedi l’audit), con appalti assegnati in modo discrezionale, impegnato più a costruire il consenso che a ben gestire il denaro pubblico, poco attento alle regole, spesso aggirate o violate, insofferente ai controlli, tanto svagato da non accorgersi dei reati che venivano compiuti sotto i suoi occhi dai suoi più stretti collaboratori, incapace di tracciare una linea netta tra il suo incarico pubblico e i suoi affari privati.

Intanto però la politica di governo e la gran parte dell’informazione – che come abbiamo visto è stata generosamente finanziata da Expo – costruiva e diffondeva la narrazione di Expo come icona del successo dell’Italia e della ripresa di Milano. Il fatto di essere comunque riuscito, dopo grosse difficoltà e con esiti ancora da valutare, a portare a termine la grossa fiera, anche a costo di molte forzature e svariate ferite all’etica pubblica e alla sensibilità istituzionale, valeva a Sala il ringraziamento del presidente del Consiglio e del sindaco di Milano e il plauso quasi unanime della stampa.

Ma a questo punto, chiusa bene o male l’esperienza Expo, è scattato un secondo tempo: Matteo Renzi lo indica come il miglior candidato possibile del centrosinistra per diventare sindaco di Milano, dopo la rinuncia di Pisapia al secondo mandato. E nessuno prende in considerazione i comportamenti che sconsiglierebbero di candidare sindaco un uomo che ha dato prove così discutibili, dal punto di vista della cultura istituzionale. Scatta il sortilegio dello storytelling, che annulla i fatti e strega politica e cittadini. In una Milano che, scrive Nando dalla Chiesa, si scopre senza più opinione pubblica. Nessun dibattito vero. Nessuna replica ai fatti contestati a Sala, anzi, nessuna discussione nel merito dei problemi sollevati. Più in generale, nessun dubbio sull’“improponibilità del ruolo di sindaco per chi sarà chiamato dal Comune di Milano, socio di Expo, a rispondere dei risultati del proprio operato come amministratore delegato su uno dei più grandi e discussi investimenti della storia postbellica cittadina. In quel caso infatti il sindaco giudicherebbe se stesso, governando inevitabilmente informazioni e valutazioni”. Nessuna discussione sull’assenza di “spirito pubblico” del manager, perché è vero che di ciò che gli viene rimproverato “nulla è reato, ma la cultura istituzionale non è il codice penale”.

Così si svolge una surreale campagna elettorale per le primarie che prolunga il “metodo Expo”, in cui non si capisce dove finiscono i ruoli (e i soldi) dell’esposizione universale e dove inizia l’attività politica del candidato sindaco. A presentarlo in tv e a rendere “Beppe” simpatico, da Fabio Fazio, va il comico Antonio Albanese, che per Expo aveva realizzato gli spot pubblicitari. Ad aprire la campagna elettorale al Piccolo Teatro è il filosofo Salvatore Veca, che come presidente della Fondazione Feltrinelli ha incassato da Expo, senza gara, 1,2 milioni di euro. Stratega della campagna è Fiorenzo Tagliabue, la cui Sec riceve da Expo, insieme alla Hill & Knowlton, 1,54 milioni di euro per l’attività di media relations.

Poi va in scena il surreale spettacolo delle “primarie più belle del mondo” (la definizione è di Giuliano Pisapia), in cui un candidato, Pierfrancesco Majorino, resta in campo non per vincerle, ma per farle perdere alla candidata indicata da Pisapia, Francesca Balzani, e far dunque trionfare Sala (che comunque non raggiunge il 50 per cento). L’esito è annunciato e si realizza esattamente come previsto. Come Lucignolo, Majorino promette il Paese dei Balocchi (un programma molto di sinistra e qualche saluto a pugno chiuso), per poi lasciare i suoi elettori, trasformati in ciuchini, nelle mani di Mangiafuoco.

Milano, bella addormentata, si avvia così alle elezioni di giugno che potrebbero portare il sortilegio dentro Palazzo Marino.

MicroMega 2/2016, marzo 2016
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