Bpm-Banco popolare, malumori prima delle nozze
La data delle nozze è già fissata, ma il fidanzamento ha qualche incrinatura e c’è insoddisfazione sulla dote. Banca Popolare di Milano (Bpm) e Banco Popolare sono promessi sposi. A ottobre sarà pronunciato il sì: le due grandi assemblee dei soci decideranno, per l’ultima volta con il voto capitario (una testa un voto), la fusione e la contestuale trasformazione in società per azioni, voluta dalla riforma delle Popolari di Matteo Renzi.
Nascerà così Banco Bpm, la terza banca italiana, con una rete di 2.500 sportelli e 113 miliardi di crediti netti verso la clientela e di raccolta diretta e indiretta. Ma crescono i malumori, soprattutto dentro Bpm: “Siamo una banca sana. Perché dobbiamo crescere fondendoci con un istituto che ha più problemi di noi, ma che, essendo più grande, finirà per assumere il comando del gruppo che nascerà?”. Questi, in sintesi, gli umori che circolano dentro Bpm.
In vista della fusione, sono già stabiliti i rapporti di partecipazione – 54 per cento Banco e 46 per cento Bpm – che determineranno il concambio. Danneggiano Milano e favoriscono Verona (sede del Banco), ha spiegato Daniela Venanzi, consigliere di sorveglianza Bpm, a un gruppo di soci riuniti nell’associazione Patto. Le due banche sono state considerate “omogenee”, sostengono i critici della fusione, ma la Popolare di Milano ha minor rischio sistemico, è più redditizia e ha minori Npl, cioè crediti difficili: il rapporto 54 a 46, negoziato tra i vertici dei due istituti, finisce così per punire Bpm. Non solo: i controlli sui valori sono stati realizzati con una due diligence sui crediti che potrebbe non fotografare esattamente la situazione. A ciascuna delle due banche è stato infatti chiesto di indicare solo 100 posizioni, di cui 50 Npl (i crediti più a rischio). Un campione troppo piccolo, che ha comunque già fatto emergere differenze – a favore di Milano – nel livello di accantonamento e nella classificazione dei crediti erogati agli stessi clienti che hanno posizioni in entrambi gli istituti.
I vertici delle due banche vogliono procedere spediti verso il matrimonio, stabilito dal memorandum firmato il 23 marzo 2016 da Giuseppe Castagna e Pierfrancesco Saviotti, amministratori delegati rispettivamente di Bpm e di Banco Popolare. A ottobre, se le due assemblee approveranno la fusione, nascerà un nuovo consiglio d’amministrazione, in cui Verona avrà 9 consiglieri contro i 7 di Milano, più 3 indipendenti. Dal Banco arriveranno anche molti dei manager del vertice: Carlo Fratta Pasini presidente del cda, Saviotti presidente del comitato esecutivo, Maurizio Faroni direttore generale. Bpm esprimerà l’amministratore delegato, Castagna, e il condirettore generale, Salvatore Poloni. Qualche malumore sembra arrivare anche dall’attuale presidente del consiglio di sorveglianza di Bpm, Nicola Rossi, tagliato fuori dalle nomine.
Il piano strategico promette meraviglie: sommando i dati delle due banche nel 2015 e confrontandoli con previsioni 2019, indica un utile netto che schizzerebbe da 593 a 1.070 milioni, con un incremento dell’80 per cento; mentre i crediti deteriorati nominali scenderebbero da 31,5 a 23,9 miliardi (-25 per cento), con un’incidenza nominale che passerebbe dal 24,8 al 17,9 per cento. Prospettive abbastanza rosee, che però non convincono i critici, i quali s’interrogano: perché si salta dal 2015 al 2019, senza dire nulla dei tre esercizi intermedi, 2016, 2017 e 2018?
La situazione delle banche, del resto, continua a essere difficile. È vero che il Banco Popolare il 22 giugno ha chiuso brillantemente il suo aumento di capitale, 1 miliardo raccolto per un terzo dai clienti retail; e che nel 2015 ha chiuso in utile il bilancio, distribuendo a marzo una cedola agli azionisti. Ma è anche vero che la prima trimestrale 2016 indica una perdita di 314 milioni, causata dalle rettifiche sui crediti. Dall’annuncio della fusione a oggi, Bpm ha perso in Borsa il 25 per cento della propria capitalizzazione, il Banco addirittura il 40 per cento. Se le notizie buone del 2015 a Verona possono essere effetto della volontà di fare bella figura in vista della fusione, quelle cattive successive sono frutto dei controlli della Banca centrale europea, che ha in corso un’ispezione sia a Verona sia a Milano e a Verona sta sottoponendo il Banco anche agli stress test (come pure le altre quattro più grosse banche italiane).
La politica in questa partita sembra silenziosa, ma non è un mistero che Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, tifi per la fusione, visto che viene da Lodi, dove il Banco Popolare ha una delle sue radici (la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani). Favorevole al matrimonio anche Giuseppe Fioroni, influente deputato del Partito democratico. Del resto, in questi chiari di luna, per le due banche non pare esserci nulla di meglio che un bel matrimonio, anche se un po’ riparatore.