L’industria della bontà. Quanto rendono i profughi
Attacchi politici durissimi da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per aver deciso di finanziare i privati che vogliano ospitare i profughi a casa loro. Addirittura minacce di morte, per il progetto di realizzare due moschee a Milano. Pierfrancesco Majorino, assessore all’Assistenza del Comune (e candidato alle primarie del centrosinistra) non si scompone. È stato uno dei protagonisti dell’emergenza profughi a Milano: la storia è quella dei disperati che sono arrivati qui a migliaia, sfuggendo alle guerre o alla fame dei loro Paesi d’origine.
Il momento più drammatico è stato nell’agosto 2015, quando la Stazione Centrale era ogni giorno invasa da una folla di persone, per lo più siriane, che sbarcavano dai treni. Ma in due anni, dall’ottobre 2013 a oggi, Milano ha offerto assistenza e ricovero a 85 mila persone, di cui oltre 17 mila donne e 16 mila bambini. In maggior parte siriani (62 per cento) ed eritrei (28 per cento), ma anche provenienti dagli altri Paesi dell’Africa e del Medioriente. Molti arrivavano a Milano con l’intenzione di raggiungere la Svezia, la Germania, l’Olanda.
Finita l’emergenza e cessato il clamore mediatico, sono tornati invisibili: ormai la rotta di fuga più frequentata è quella balcanica, ma continuano ad arrivare anche a Milano – una decina al giorno – in attesa di ripartire per un Paese europeo più a nord. Invisibili, adesso, almeno fino alla prossima emergenza.
Attorno a loro, Milano ha costruito un sistema d’accoglienza molto più strutturato che nel resto d’Italia. Fatto d’intervento pubblico e di cooperative private, di strutture per l’ospitalità e di personale che lavora in questa “industria del bene” dove ci sono molti volontari, ma dove girano anche molti soldi. Sono forse l’unica cosa che non manca, in questa storia dove mancano, a volte, la pietà, la misura, il buonsenso: non i soldi, centinaia di milioni di euro stanziati dallo Stato. A Roma alcune cooperative sociali sono finite dentro i faldoni giudiziari di Mafia Capitale. E a Milano? Chi sono i protagonisti del “business dell’accoglienza”? Come lavorano? Quanti soldi gestiscono?
L’accoglienza di rito ambrosiano
Peppe Monetti, 42 anni, idee chiare e aria molto casual, lavora per la Casa della Carità, fondata da don Virginio Colmegna e ormai diventata a Milano un’istituzione. Prova a spiegare la non semplice geografia dell’accoglienza, stretta tra volontariato e burocrazia. Negli anni si è consolidato un “Modello Milano”. È un sistema di accoglienza composto da tre percorsi paralleli.
Da una parte, il percorso “ordinario” per chi viene da una zona di guerra e chiede asilo in Italia: se ne fa carico il ministero dell’Interno e, in concreto, le prefetture, attraverso i centri del “Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo”, in sigla Sprar. Un sistema che offre assistenza in attesa della concessione dell’asilo e per i sei mesi successivi all’accoglimento della domanda. In totale, un periodo che può durare anche un paio d’anni.
Per ogni profugo, lo Stato stanzia 35 euro al giorno, per vitto, alloggio, assistenza legale, psicologica, sanitaria e per pagare gli operatori sociali che lo aiutano. Nel 2012, i posti Sprar erano 8 mila. Nel 2015 sono diventati 21 mila. Costo per lo Stato: 270 milioni di euro.
A volte questo sistema, il più garantito e controllato, collassa. E allora le prefetture aprono, in emergenza, un secondo percorso: convenzioni dirette con cooperative e associazioni fuori dal sistema Sprar. È successo, per esempio, ad agosto, quando è arrivata in Italia l’ondata dei profughi siriani in fuga dalla guerra nel loro Paese.
A Milano è stato poi “inventato” un terzo percorso, un’accoglienza di rito ambrosiano. È un sistema per i cosiddetti “transitanti”: sono famiglie per lo più di siriani o di eritrei che scappano dalla guerra e dal regime del loro Paese e che non fanno domanda d’asilo all’Italia, ma passano di qui solo per arrivare nei Paesi del nord Europa, dove già risiedono i loro parenti o amici.
Sono persone ignorate dalle statistiche del ministero dell’Interno, ma in due anni, dall’ottobre 2013 a oggi, sono state appunto 85 mila. Hanno trascorso in città una media di 4,7 giorni e poi sono ripartiti. Sono costati 11,2 milioni di euro. Anche questo percorso è finanziato con fondi governativi, con denaro che proviene soprattutto dall’Unione europea (il “Fondo asilo”). In questo caso a stringere una convenzione con la prefettura è il Comune di Milano, che a sua volta distribuisce i profughi nelle diverse strutture disponibili.
Quella gara imposta da Raffaele Cantone
A Milano si è dovuto trovare un posto per dormire a 1.300 persone ogni notte. Per far fronte agli arrivi massicci della scorsa estate, l’assessore Majorino non ha potuto fare delle gare, ma si è rivolto agli enti e alle associazioni che in città già si occupano dei senza fissa dimora, i “barboni” che non hanno un tetto. A loro vengono dati una branda e un pasto, niente di più, con una spesa per il Comune di 8 euro a persona per notte. Per i profughi, invece, la tariffa pagata dallo Stato è ben più alta: 35 euro al giorno, appunto.
L’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) di Raffaele Cantone nell’aprile 2015 chiede al sindaco Giuliano Pisapia chiarimenti sull’affidamento degli appalti. Sono irregolari, denunciano Marco Cappato e i radicali milanesi. Majorino corre ai ripari: viene avviata una gara regolare per stabilire un nuovo elenco di enti e associazioni che si occupino dei “transitanti”. Il Comune, dei 35 euro dati dal governo, ne pagherà 32 al giorno per ogni ospite, quando saranno ricoverati in strutture fornite dell’ente o associazione, 27 euro quando l’ospitalità avviene in strutture cedute dal Comune in comodato d’uso.
Se confrontate con queste cifre, quelle delle nuove ospitalità in famiglie private su cui ora è scoppiata la polemica garantiscono un risparmio, garantisce Majorino: ogni r costerà solo 10,50 euro al giorno. “L’accoglienza in famiglia dei rifugiati, dunque, ci permetterà non solo di sperimentare forme nuove e più efficaci di solidarietà e inclusione sociale, ma anche di razionalizzare l’uso delle risorse statali destinate ai richiedenti asilo, con un risparmio addirittura del 70 per cento sulla spesa media per l’ospitalità”. Le 20 persone (non di più) che saranno accolte dalle “famiglie solidali” per 6 mesi costeranno 42 mila euro, a fronte dei 129 mila che sarebbero pagati ai centri convenzionati.
Sono tanti o pochi, i 35 euro pagati alle associazioni convenzionate? Se a ogni persona accolta offri un servizio di buona qualità, con operatori professionali, medici, psicologi, avvocati, mediatori culturali, per far quadrare i conti dovrai ricorrere alle donazioni e al volontariato. Ma se non vai troppo per il sottile e ammassi i profughi in stanzoni, offrendo un letto e un pasto e niente più, allora, nei momenti di grande afflusso, l’accoglienza diventa un bel business.
C’è chi la fa anche su scala industriale. In Italia, alla periferia di Milano, opera una multinazionale francese, Gepsa (Gestion Etablissements Penitenciers Services Auxiliares), legata alla Gdf Suez, che in Francia gestisce alcune carceri e da noi gestisce l’ex Cie (il Centro di identificazione ed espulsione) di via Corelli, ora diventato un centro per i richiedenti asilo.
Anche alcuni privati, nel momento di massima emergenza, hanno provato a entrare nell’affare: offrendo stabili sfitti o capannoni per ospitare i profughi. A pagamento, naturalmente: come ha fatto il proprietario di un fabbricato commerciale di 200 metri quadrati nell’hinterland milanese che ha offerto i suoi spazi a un’organizzazione cattolica a 2.500 euro al mese. Respinto, ma ci ha provato.
Le grandi macchine del bene
Chi sono quelli che fanno accoglienza a Milano? L’elenco è lungo: Cooperativa Farsi Prossimo, Fondazione Progetto Arca, City Angels, Casa della Carità, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Fratelli di San Francesco, Save the Children, Albero della Vita, oltre alla Protezione civile comunale, la Polizia locale, l’Asl Milano, la Società Italiana Pediatri e il Gruppo volontari della Stazione Centrale.
L’organizzazione più nota è la Casa della Carità di don Virginio Colmegna. Questa però resta per scelta fuori dal giro del business, limitandosi ad accogliere i più bisognosi e i casi più difficili, come gli stranieri che hanno bisogno di assistenza psichiatrica. Lo fa gratis, senza chiedere i fondi pubblici.
Le due organizzazioni maggiori d’accoglienza sono invece “Farsi Prossimo”, il braccio operativo della Caritas, e “Progetto Arca”. Cattolica la prima, laica la seconda. Arca è nata dall’impegno di Alberto Sinigallia, che iniziò da ragazzo ad aiutare Fratel Ettore, il frate che accoglieva e dava un tetto e un pasto ai “barboni” di Milano. “Ma Arca è un’organizzazione laica. Io, per dire, sono po’ ebreo e un po’ cattolico”, racconta Sinigallia, “ma è certo che per fare questa attività bisogna avere delle forti motivazioni, non confessionali, ma morali e umane”.
Quando nasce, nel 1994, Arca si occupa di recuperare i tossicodipendenti da eroina. Poi cresce fino a diventare un’organizzazione con circa 200 dipendenti stipendiati, 330 volontari, 1 milione di pasti dispensati, 300 mila posti letto offerti e più di 45 mila persone assistite nel 2015, con un giro d’affari di oltre 10 milioni di euro. Di questi, 6 milioni sono fondi pubblici e 4 milioni sono raccolti da donatori, con un’azione di fund raising (costo: il 18 per cento dei fondi raccolti).
Arca è presente a Torino, Roma, Napoli e Catania, ma a Milano ha il suo cuore. Qui gestisce il centro di via Mambretti, una ex scuola di 4.200 metri quadrati e 250 posti che le è stata assegnata dal Comune di Milano per 20 anni; il centro di via Aldini, 4.500 metri quadrati con 300 posti per migranti; più altre realtà più piccole. Ha una sede di proprietà di 720 metri quadri in via Artigianelli, dove ha la sua direzione e un piccolo centro di accoglienza per persone senza dimora e con problemi di dipendenza, da gioco o droghe. “Ora puntiamo molto sul progetto Housing First”, dice Sinigallia, “utilizzando una cinquantina di monolocali o bilocali dell’Aler per stimolare le persone che aiutiamo a reinserirsi e a ripartire”.
L’altro grande fornitore di posti d’accoglienza a Milano è la cooperativa Farsi Prossimo. In orbita Caritas, ha una cinquantina di posti per famiglie e donne sole in transito, un’ottantina di ospiti (di cui 26 in appartamento) in convenzione con la prefettura e 284 nel programma Sprar. Da quando tutto è cominciato, il 18 ottobre 2013, la cooperativa ha visto passare 13.190 persone, di cui 3.400 minori. Il costo: 268.650 euro.
“A prescindere dalle età e dalle necessità, la convenzione prevede sempre la stessa cifra”, spiega la referente della cooperativa, Annamaria Lodi: 24 euro a persona, a cui dopo i primi sette giorni di permanenza si aggiungono 2,5 euro di pocket money: soldi da spendere per piccole spese personali. Ma per i minori, per esempio, l’accoglienza è più costosa. Impossibile però cambiare i tariffari.
Finita l’estate, la cooperativa ha aggiunto altri 50 posti offerti da oratori e parrocchie di Milano, anche in risposta alle raccomandazioni di papa Francesco che ha chiesto alla Chiesa di accogliere i profughi. In questi casi, Farsi Prossimo gestisce l’accoglienza, insieme ai volontari delle parrocchie. Il suo personale è composto da nove impiegati con base a Casa Suraya, il fiore all’occhiello dell’accoglienza di Caritas.
La casa, un istituto delle suore della Riparazione, è stata ristrutturata in convenzione con il Comune di Milano e inaugurata il 20 giugno 2014: è stata chiamata Suraya come la bambina siriana figlia di una profuga e nata a Milano nel maggio 2014. Prima, Farsi Prossimo aveva sede in una ex scuola in via Fratelli Zoja offerta dal Comune in comodato d’uso. “Era uno spazio inadatto”, racconta Lodi, “avevo paura che si infiltrassero i trafficanti di persone”. Casa Suraya è invece protetta da un cancello ed è costantemente sorvegliata. I traffici però non si sono fermati: si sono spostati in Porta Venezia e in Stazione Centrale.
Le cooperative cacciate per Mafia Capitale
Altre organizzazioni attive nell’accoglienza in convenzione con il Comune di Milano sono la Fondazione Fratelli di San Francesco; la Fondazione Shoah, legata alla comunità ebraica milanese, che gestisce 50 posti al Binario 21 della stazione centrale; la Cooperativa La Strada; l’Istituto don Gnocchi. Due cooperative, Integra e Inopera, sono state escluse per “gravi inadempienze” e perché coinvolte nelle indagini su Mafia Capitale.
Come la cooperativa La Cascina, vicina a Cl e molto attiva a Roma. Questa ha tentato di entrare anche a Milano, ma non ha finora vinto alcun bando per l’assistenza rifugiati. In compenso, si è inserita alla grande nel settore della ristorazione scolastica, in paesi dell’hinterland milanese come Cinisello Balsamo e Locate Triulzi, fino a Melegnano e a Varese.
Le polemiche politiche sulle spese per i profughi sono alimentate anche dall’aria elettorale. L’assessore Majorino ribadisce che con l’accoglienza nelle famiglie si risparmieranno soldi pubblici e ribatte: “La nostra, al di là della becera retorica leghista, è buona amministrazione della città e della cosa pubblica”.