Licio Gelli, volonteroso funzionario del doppio Stato
È morto ieri, 15 dicembre 2015, Licio Gelli. Ecco un pezzo della sua storia, tratta dal capitolo “Lo Stato ombra” del libro Il Grande Vecchio, Bur Rizzoli, 2009. (Nella foto: Licio Gelli con Giulio Andreotti)
Giuliano Turone: «Davanti a un’indagine su Sindona che si presentava molto complessa, come un tessuto dai cento fili intrecciati, abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama. Così siamo arrivati alla scoperta della P2».
Gherardo Colombo: «Perché la giurisdizione funzioni, è necessario che esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole. In Italia invece la cultura diffusa è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio».
Licio Gelli continua a parlare, ad alludere, a sorridere. «Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza a poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico… Ho scritto tutto trent’anni fa.»
Alla fine del 2008 ricompare anche in televisione, protagonista di Venerabile Italia, un programma di Odeon tv dove spiega e commenta la storia recente italiana. Nella conferenza stampa di presentazione, a Firenze, ha parole di lode per il più noto degli iscritti alla sua loggia, a cui riconosce il merito di portare a compimento il suo programma, quel Piano di rinascita democratica per cui più volte Gelli ha detto che avrebbe dovuto chiedere a Silvio Berlusconi i diritti.
Nel corso degli anni, Gelli è stato ripetutamente indagato, è comparso come imputato o testimone in numerose inchieste: sulla P2, sul crac del Banco ambrosiano di Roberto Calvi, sull’assassinio del giudice Vittorio Occorsio, sull’omicidio del giornalista di «Op» Mino Pecorelli, sugli attentati di destra ai treni in Toscana, sulla strage di Bologna, su quella dell’Italicus. È stato arrestato. È fuggito dal carce-re. È scomparso. È tornato a riapparire. Fino alla ritrovata tranquillità del programma tv e delle interviste in cui esibisce la sua vittoria. Dopo tante avventure, scandali, inchieste, processi, condanne, il grande vecchio della loggia P2 appare rilassato, soddisfatto, riverito, tranquillo.
A far scoppiare lo scandalo Gelli, scoprendo nella primavera del 1981 gli elenchi della sua loggia massonica segreta, sono due magistrati di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Turone, baffi curati e dita sottili, nel 1981 era un giudice quarantenne irrequieto e rigoroso. Veniva da una famiglia milanese, padre avvocato, liceo Manzoni negli anni Cinquanta, un anno di studi negli Stati Uniti prima della maturità. Dopo la laurea in legge era stato tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto la magistratura: perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la politica estera del suo governo, mentre il magistrato decide e giudica, con il solo aiuto della legge e della sua coscienza. Affascinato dalla geometria dell’indagine, aveva voluto diventare giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata dal nuovo codice) di giudice e investigatore.
Poco più che trentenne, era entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l’imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e aveva poi scoperto il responsabile del sequestro, arrestato la mattina del 16 marzo 1974: era un ometto siciliano che abitava in via Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d’identità aveva scritto Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa Nostra con il nome di Luciano Liggio. Negli anni seguenti, Turone si era occupato, come tanti suoi colleghi, del terrorismo rosso e già doveva girare per la città con la scorta armata.
Gherardo Colombo nell’81 era invece un giovanotto che arrivava a Palazzo di giustizia con i jeans e la camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona di capelli refrattari al pettine. Anch’egli giudice istruttore, era nato 35 anni prima a Briosco, sui colli della Brianza, ed era cresciuto in una grande casa lì vicino, a Renate, padre medico e un po’ poeta, nonno e bisnonno avvocati. Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con aria apparentemente svagata, accompagnando le parole con brevi gesti secchi della mano, che poi spesso lasciava così, sospesa a mezz’aria.
Nel 1980, il capo dell’ufficio istruzione, Antonio Amati, affida a Turone e a Colombo, insieme, due inchieste aperte a Milano su Michele Sindona: la prima riguarda l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della banca italiana del bancarottiere, ucciso l’11 luglio 1979; la seconda riguarda lo strano rapimento di Sindona, scomparso da New York il 2 agosto e poi ricomparso il 16 ottobre 1979.
I due giudici istruttori, che lavorano in due stanze l’una di fronte all’altra al secondo piano del Palazzo di giustizia di Milano, si rimboccano le maniche. Vengono risucchiati da un’indagine appassionante. Macinano decine e decine di interrogatori, perquisizioni, indagini bancarie. Per nove mesi, dal giugno 1980 al marzo 1981, lavorano sodo fianco a fianco.
Un’istruttoria capillare, con molti colpi di scena. Il primo: il rapimento di Sindona è un finto rapimento, come era apparso probabile fin dall’inizio, ed è servito al bancarottiere per andare in Sicilia a stringere oscuri legami, a compiere inconfessabili manovre. L’ultimo: Sindona apparteneva a una loggia massonica segreta, diretta da Licio Gelli, a cui erano iscritti politici, ministri, funzionari, magistrati, alti gradi militari, uomini dei servizi segreti. Uno Stato nello Stato.
«Davanti a un’indagine che si presentava molto complessa, come un tessuto dai cento fili intrecciati, abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama» spiega Turone. La ricerca parte dunque dal «sequestro» di Sindona, subito rivendicato da un improbabile «Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore».
L’ex «salvatore della lira», per molti anni spregiudicato protagonista della finanza italiana abituato a navigare fra banchieri e cardinali, faccendieri e politici democristiani, amici siciliani e strani personaggi italoamericani, è già in gravi difficoltà dalla fine del 1974. In quell’anno diviene visibile, nonostante le importanti coperture di cui continuava a disporre, il crac del suo istituto di credito, la Banca privata italiana, che aveva bruciato oltre 200 miliardi di lire affidategli dai risparmiatori.
Sindona ormai viveva negli Stati Uniti, alloggiava all’Hotel Pierre di New York. E aveva guai anche con la giustizia americana, perché anche la sua banca statunitense, la Franklin National Bank, navigava in cattivissime acque. Quando, nel 1976, i giudici italiani avevano inviato alle autorità americane una richiesta d’estradizione per il bancarottiere, questi aveva risposto presentando al Tribunale di Manhattan una decina di «affidavit» (ossia dichiarazioni giurate) in cui importanti personaggi garantivano che Sindona era perseguitato nel suo Paese per motivi politici, a causa della sua militanza anticomunista.
I firmatari degli «affidavit» avevano dei bei nomi. Anna Bonomi Bolchini, la signora della finanza italiana. Carmelo Spagnuolo, procuratore generale a Roma. Edgardo Sogno, ex ambasciatore italiano. Philip Guarino, esponente di rilievo di gruppi massonici italoamericani. John McCaffery, capo delle operazioni dei servizi segreti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale. Uno degli «affidavit» era firmato da un certo Licio Gelli.
Ecco che il nome di Gelli entra per la prima volta nell’inchiesta Sindona. La dichiarazione giurata da lui sottoscritta, con prosa ridondante, dice: «Nella mia qualità di uomo d’affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. È un bersaglio per loro e viene costantemente attaccato dalla stampa comunista. L’odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è anticomunista e perché ha sempre appoggiato la libera impresa in un’Italia democratica».
Ma chi è Licio Gelli? Da chi «è conosciuto come anticomunista»? Tra i suoi connazionali, in verità, è ancora poco noto. Il grande pubblico non ha mai neppure sentito pronunciare il suo nome. Però l’Italia del potere sa già che Gelli è il Venerabile Maestro della loggia coperta Propaganda 2. E da alcuni particolari referenti certamente «è conosciuto come anticomunista»: è conosciuto benissimo, fin dalla sua giovinezza.
Durante l’ultimo conflitto mondiale, infatti, aveva avuto contatti, fin dal 1942, con i servizi segreti inglesi, poi, a partire dagli ultimi mesi del 1944, con il Cic (Counter Intelligence Corps) della quinta armata americana. Forte di tali rapporti, aveva fatto il doppio gioco: vicino ai giovani fascisti repubblichini toscani (tra i quali il futuro senatore missino Giorgio Pisanò), in stretto collegamento con il comando tedesco, ma al tempo stesso in contatto con alcuni esponenti locali della Resistenza.
Quando gli Alleati erano giunti a Pistoia, nel settembre del 1944, aveva guidato lui stesso la prima pattuglia entrata in città. Riconosciuto da alcuni partigiani, aveva rischiato la fucilazione, ma era poi stato salvato dai dirigenti del locale Comitato di liberazione nazionale, che gli avevano consegnato perfino un attestato di partecipazione alla lotta partigiana.
Una vecchia informativa del Sifar, la cui attendibilità non è mai stata accertata, sostiene che nei primi anni del dopoguerra Gelli avrebbe avuto contatti anche con i servizi segreti di alcuni Paesi dell’Europa orientale. Certo è che la sua vita è stata molto movimentata, fin dall’adolescenza. A 13 anni era stato espulso da tutte le scuole del regno per aver preso a calci un professore antifascista. A 18 si era arruolato volontario per andare a combattere in Spagna a fianco dei franchisti. A 26 era entrato nel carcere di Cagliari, arrestato per reati comuni (fra i quali furto e sequestro di persona) commessi con la camicia nera.
Poi, nel dopoguerra, il figlio del mugnaio, nato a Pistoia nel 1919, era emigrato in Argentina. Tornato in patria, era diventato via via rappresentante della Remington, libraio, segretario del deputato democristiano Romolo Diecidue. Poi, ancora, dirigente della Permaflex, socio della Lebole. E massone.
Aveva chiesto l’iscrizione alla loggia Gian Domenico Romagnosi il 5 novembre 1963, visto di malocchio da alcuni autorevoli aderenti, appartenenti alla tradizione illuminista e antifascista della massoneria toscana. Il 28 novembre 1966 però la sua carriera muratoria aveva avuto un’improvvisa impennata: il Gran Maestro Giordano Gamberini aveva chiamato l’ancora «apprendista» Licio Gelli al fianco dell’avvocato Roberto Ascarelli, che stava ricostruendo una loggia chiamata Propaganda 2. Gelli della P2 diventa in breve tempo Maestro Venerabile e le fa cambiare natura, affiliandovi centinaia di personaggi di rango e di potere.
Volonteroso funzionario del doppio Stato: questo è Licio Gelli, arruolato nel dopoguerra (come tanti altri fascisti e nazisti) nell’esercito invisibile che gli Alleati avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e Mussolini, per combattere la nuova guerra, la «guerra non ortodossa» contro il comunismo. Entrato nella massoneria aveva contribuito a selezionare, dentro l’esercito, gli ufficiali anticomunisti disposti ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato (tentato) del dicembre 1970 aveva avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era l’incarico di entrare al Quirinale e trarre in arresto il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che finivano sempre con un bel «viva la Resistenza, viva l’Italia!». Poi il golpe era stato bloccato. In un libro-intervista (Parola di Venerabile di Sandro Neri, Aliberti 2006), Gelli ha spiegato che era venuto meno il sostegno degli Stati Uniti: «È un vecchio vizio tutto americano. Gli Usa tentano di imporre la democrazia ovunque, obbligando gli altri Paesi ad accettarla, ma il fine è conquistare sempre più spazio per loro». Del resto, «dalla fine della guerra eravamo ormai una colonia degli Usa». Gelli dunque è filoamericano in quanto anticomunista, ma, da fascista quale è restato, finisce sempre per mostrare il suo fastidio per la democrazia e perfino per gli Stati Uniti.
Dopo il 1974, anno di svolta, la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambia: basta con la contrapposizione diretta, con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da un più flessibile programma di occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società, di tutti i centri di potere. La massoneria (o almeno una parte di essa) fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del doppio Stato. Decolla così la P2 di Licio Gelli, circolo dell’oltranzismo atlantico in cui poi, all’italiana, pesano anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli affarucci.
Ma tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo ancora non lo sapevano, non lo immaginavano neanche. I due andavano avanti per la loro strada, a districare i misteri del caso Sindona. Il nome di Gelli, incontrato per la prima volta in calce all’«affidavit» del banchiere, diventa presto ricorrente nelle indagini. Spesso legato a un altro nome, quello di un medico italoamericano, Joseph Miceli Crimi, esperto di riti esoterici e di chirurgie plastiche, che vanta molti amici negli Stati Uniti e a Palermo.
La messinscena del rapimento permette infatti a Sindona di scomparire e di compiere un convulso viaggio da New York a Vienna, da Vienna ad Atene, da Atene a Brindisi, da Brindisi alla Sicilia. Miceli Crimi è uno dei registi di quel viaggio, che ha un doppio scopo: mandare messaggi, appelli, intimidazioni, minacce a chi si ritiene possa ancora salvare Sindona dal rovescio finanziario e penale; e accreditare davanti ai giudici americani, per evitare l’estradizione in Italia, l’immagine del banchiere perseguitato, combattente anticomunista, addirittura rapito dai terroristi rossi.
Esistono poi, nelle carte processuali e nelle dichiarazioni di appartenenti a Cosa Nostra, accenni a un terzo, possibile obiettivo: la partecipazione di Sindona a un progettato golpe separatista massonico-mafioso, che avrebbe dovuto staccare la Sicilia dall’Italia, salvandola dal comunismo e ponendola sotto la diretta tutela degli Stati Uniti.
Succedono cose terribili durante quell’estate 1979. Milano, 11 luglio: nella notte è assassinato l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Palermo, 21 luglio: ucciso il vicequestore Boris Giuliano. Palermo, 25 settembre: massacrati il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di polizia che era con lui, Lenin Mancuso. Milano, 5 ottobre: attentato alla casa di Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca. Sul primo e sull’ultimo di questi fatti si allunga l’ombra di Sindona.
I giudici milanesi riescono a ricostruire, tappa dopo tappa, tutto l’itinerario del suo strano viaggio di quella strana estate. «Avevamo chiesto al capo del nostro ufficio, il consigliere istruttore Amati,» ricorda Colombo «di poter avere a disposizione, per lavorare, anche uno stanzone pieno di scaffali, che normalmente serviva come deposito di documenti.» Lì i due magistrati, alle prese con gli spostamenti di Sindona e dei personaggi che l’attorniano, inventano il «rullo»: «Era un marchingegno fatto di un grandissimo nastro di carta che poteva essere arrotolato attorno a un’asta di legno. Avevamo diviso il foglio in tanti quadrati nei quali inserire gli spostamenti dei diversi personaggi nel corso dei mesi considerati. Volevamo poter incrociare gli spostamenti di tutti i protagonisti di questa storia».
Il lavoro è duro, ma appassionante. La sera non c’è un orario per smettere. Spesso, quando Giuliano e Gherardo escono da Palazzo di giustizia, a Milano è già buio. Quando serve, si prende l’aereo per New York, per scambiare idee e carte con l’Fbi e con i magistrati delle procure distrettuali di Brooklyn e di Manhattan. Torna utile la lingua imparata da Turone in quel suo anno di liceo in America (cosa rara, solo qualche anno fa, un giudice che parlasse bene l’inglese).
Il «rullo», dopo qualche prova, viene smontato. Bello, ma troppo macchinoso. Sostituito con una robusta, grande, vecchia agenda del 1979. L’agenda stessa diventa il «rullo», così viene chiamata dai due giudici. «Hai “rullato”, oggi?» si chiedono la sera, per dire: sei riuscito a inserire qualche nuovo fatto nella griglia dell’agenda? Piano piano, le tessere del mosaico si compongono. Con un lavoro minuzioso e tenace l’intero percorso di Sindona è ricostruito, moltissimi dei suoi contatti sono individuati.
Gli ultimi 70 giorni della latitanza-rapimento, prima di ricomparire come per incanto a New York, Sindona li passa a Palermo, in compagnia di una composita fauna di personaggi. Alcuni appartengono al mondo della massoneria. Altri a quello della mafia. Tra i primi, Salvatore Bellassai, capogruppo della P2 per la Sicilia, e Michele Barresi, presidente della loggia Camea di Palermo. Tra i secondi, John Gambino in persona, esponente di rilievo di Cosa Nostra americana, e Vincenzo e Rosario Spatola, di Cosa Nostra siciliana. Ma molti di coloro che girano attorno a Sindona in quelle settimane sono personaggi, spiegano Colombo e Turone, «nei quali la dimensione massonica e la dimensione mafiosa vengono a congiungersi»: Giacomo Vitale, per esempio, è affiliato alla loggia Camea ma anche alla cosca dei Bontate; e Francesco Foderà, iscritto anch’egli alla Camea, è uomo di Cosa Nostra.
L’ospite di Sindona in quell’estate di scirocco palermitano è il medico italoamericano Joseph Miceli Crimi, che sostiene di essere impegnato in un’opera di riunificazione di tutte le logge massoniche italiane. È Miceli Crimi – scoprono Colombo e Turone – a sparare alla gamba di Sindona, d’accordo con lui, per cercare di rendere più credibile l’incredibile rapimento. I giudici milanesi trovano un biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, acquistato e usato da Miceli Crimi durante la torbida estate di Sindona in Sicilia. Perché il medico era andato in Toscana? «Sono andato a fare una visita al dentista presso cui ero in cura» è la prima, fantasiosa risposta di Miceli Crimi. Poi, più realisticamente, deve ammettere di essere andato ad Arezzo per incontrare il Venerabile, per discutere con lui la situazione di Sindona.
Le visite e i contatti, in verità, erano stati più d’uno. Undici estati dopo, nell’agosto 1992, Gelli stesso, in una delle sue compiaciute interviste, fornirà la sua versione di un incontro con Crimi avvenuto all’Hotel Excelsior di Roma: «Quando il dottor Crimi mi si presentò all’Excelsior come inviato della massoneria americana» racconta Gelli «io lo misi garbatamente alla porta anche se poi dovetti richiamarlo per dirgli di mandare a riprendersi una pistola che gli era caduta di tasca e che avevo ritrovato sulla poltrona del mio salotto. Non so quanto gli fosse caduta o fosse stata “dimenticata”. So, comunque, che i nostri rapporti non andarono oltre».
Ormai molti elementi nell’inchiesta su Sindona rimandano a Gelli. Con lui si incontra e ha ripetuti contatti una folla variopinta di personaggi, tutti in movimento per cercare di far scattare il salvataggio finanziario, penale e politico di Sindona: tra gli altri, Rodolfo Guzzi, l’avvocato del bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, il genero di Sindona; Philip Guarino e Paul Rao, che incontrano il Venerabile poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti.
Dal suo provvisorio quartier generale palermitano in bilico tra le palme e il cemento, Sindona, attorniato da una corte di faccendieri, belle donne e uomini d’onore, mette a punto due partite dell’operazione salvataggio: le intimidazioni nei confronti di Enrico Cuccia, il grande regista silenzioso di Mediobanca, e il tentativo d’estorsione ai danni di Roberto Calvi, il banchiere che prende a Milano il posto che era stato di Sindona.
La partita che riguarda Ambrosoli, invece, si è conclusa poche settimane prima: nella notte tra l’11 e il 12 luglio, un killer venuto dall’America, William Arico, ha fermato, con tre colpi al petto sparati da una 357 Magnum, l’uomo che aveva voluto fare fino in fondo il suo dovere, che si era opposto al salvataggio delle banche sindoniane a spese dei contribuenti, l’«eroe borghese» che non si era lasciato fermare né dai consigli della politica andreottiana, né dagli avvertimenti di Sindona, né dalle minacce mafiose.
Punito Ambrosoli, le intimidazioni continuano nei confronti di Cuccia. La porta della sua casa milanese viene bruciata nella notte del 5 ottobre. Subito dopo, una telefonata anonima raggiunge la figlia del presidente di Mediobanca: «Vista la bella fiammella? Dì a tuo padre che se non fa quello che vogliamo vi bruceremo tutti vivi! Siamo gli amici del signore di New York che lui sa…».
Sindona, che considera la finanza un gioco di prestigio e un’ancella della politica, pretende di essere salvato. Lo pretende da Cuccia, lo esige da Calvi, a cui chiede soldi. La richiesta di denaro è fatta attraverso la mediazione di Licio Gelli. Perché? E perché tanti contatti con il Venerabile nell’agenda dei personaggi della corte di Sindona? Turone e Colombo poi scopriranno che tanti personaggi di questa storia – da Sindona a Calvi, da Edgardo Sogno a Carmelo Spagnuolo – sono iscritti alla P2. Ma già cominciano a capire che Gelli è un essenziale punto d’equilibrio di un complesso sistema di potere: «Il canale privilegiato se non esclusivo,» scrivono nella loro sentenza-ordinanza «attraverso il quale Sindona poteva pensare di intavolare una trattativa sotterranea con quei settori dell’establishment verso il quale era rivolto il suo programma ricattatorio». Ecco perché, nel marzo 1981, i giudici milanesi decidono di ordinare una perquisizione di tutti gli indirizzi del Venerabile.
«Cautela assoluta: avevamo intuito che, visto il personaggio coinvolto, per ottenere risultati dalla perquisizione dovevamo procedere con la massima segretezza» racconta Colombo. «La preparazione è stata meticolosa, attenta, accurata» ricorda Turone. Sono coinvolte poche persone: un colonnello della Guardia di finanza, Vincenzo Bianchi, e un numero ristretto di uomini ai suoi ordini, tutti di Milano. «Persone» dicono i due giudici «con cui lavoravamo da tempo, di cui conoscevamo la lealtà istituzionale.»
I giudici sanno che devono superare una doppia barriera. La prima è psicologica: il Venerabile ha diffuso ad arte la leggenda che le sue residenze sono protette dal privilegio di una speciale extraterritorialità, per via del fatto che egli è consigliere commerciale dell’ambasciata argentina a Roma e gode dell’immunità diplomatica. La seconda barriera è più reale: attorno a Gelli e alle sue cose esiste una specie di cordone sanitario, fatto di persone influenti e potenti, autorità militari e di polizia, pronte a proteggerlo e ad avvisarlo nel caso qualcuno si fosse avvicinato troppo ai suoi segreti.
La sera di lunedì 16 marzo 1981 una sessantina di agenti della Guardia di finanza comandati da Bianchi si muovono da Milano verso i quattro indirizzi di Gelli (quelli annotati su un’agenda di Sindona sequestrata dalla polizia di New York dopo la scomparsa del banchiere): villa Wanda di Arezzo, l’abitazione privata; una suite dell’Hotel Excelsior di Roma, dove riceveva ospiti, postulanti, autorità; un’azienda di Frosinone, poi dimostratasi un vecchio recapito; gli uffici della Giole di Castiglion Fibocchi, una fabbrica di abbigliamento.
Neppure tutti gli agenti coinvolti sanno qual è l’obiettivo dell’operazione. Bianchi ha l’ordine di non informare del suo arrivo in zona i comandanti locali della Guardia di finanza e di non avere alcun contatto con le autorità locali, i carabinieri, la polizia, la magistratura del posto. Arrivati in Toscana, gli uomini di Bianchi non passano la notte nella caserma di Arezzo delle fiamme gialle, ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti, l’appuntamento è all’alba del 17 marzo.
Gelli, a cui devono consegnare una comunicazione giudiziaria, non si trova. È a Montevideo. La perquisizione non dà alcun esito a Roma. Neppure a villa Wanda. Dagli uffici della Giole, invece, inaspettatamente, arriva una telefonata: gli agenti hanno trovato una montagna di carte, protette da Carla, la segretaria del Venerabile. Turone e Colombo, dal Palazzo di giustizia di Milano, ordinano di sequestrare tutto.
Ci sono documenti nella cassaforte, sulla scrivania, nei cassetti. Imbottita di carte, fascicoli, bobine è anche una valigia che sembra pronta per prendere il volo. Nella cassaforte c’è un elenco di nomi: gli iscritti alla loggia P2. Gli agenti scorrono quei fogli e rabbrividiscono. Telefonano di nuovo a Milano: tra gli aderenti alla loggia di Gelli c’è anche il comandante della Guardia di finanza, il generale Orazio Giannini, e il suo predecessore, il generale Raffaele Giudice. E il comandante del nucleo speciale valutario, i capi dei nuclei di polizia tributaria di molte province, il comandante della finanza di Arezzo, ufficiali e sottufficiali. «Dei nostri di Milano non c’è nessuno» cercano di consolarsi gli agenti. In compenso c’è perfino il capo di stato maggiore della Guardia di finanza, il generale Donato Lo Prete. E una piccola folla di generali, colonnelli, maggiori.
«Sequestrate tutto» ripetono da Milano Colombo e Turone. La perquisizione è ancora in corso quando arriva via radio la chiamata del generale Giannini. Vuole parlare con il colonnello Bianchi: «C’è anche il mio nome, in quegli elenchi», gli dice, e gli ripete che si tratta di cose delicate.
C’era dell’altro materiale, a Castiglion Fibocchi, sfuggito quel giorno alle mani degli agenti? Undici anni dopo, Gelli, in un’intervista rilasciata dal Grand Hotel Miramonti di Cortina, rivela di sì, soddisfatto e provocatorio: «Fu una perquisizione stupida,» dice «eccitati com’erano, non si accorsero che al piano di sotto c’erano altro che gli elenchi…». Che cosa c’era? «Tutti i fascicoli relativi a ciascun aderente, con tutta la corrispondenza, le domande, i giuramenti. Oltre a tutto il resto. Insomma sotto i loro piedi c’era tutta la documentazione della P2 e non se ne sono accorti.»
Sembra uno sberleffo, anche se gli elementi citati chiaramente non sembrano aggiungere un gran che a ciò che è stato trovato. Ma che cos’è, invece, «tutto il resto»? E che fine ha fatto? «L’ho raccolto in 58 pacchi e l’ho portato all’estero dove è stato distrutto. Del resto le copie dovevano trovarsi presso il Grande Oriente: io passavo tutto in copia al Gran Maestro.» L’eterno ricatto dei dossier, veri o immaginari che siano, cominciato in Italia negli anni Cinquanta con i dossier del Sifar, continua.
Il giorno dopo inizia per i due giudici milanesi un periodo di lavoro frenetico. «Ci siamo subito resi conto di aver messo le mani su materiale scottante, che avrebbe scatenato molte reazioni. Abbiamo allora deciso innanzitutto di catalogare e fotocopiare tutto, per garantire la genuinità della documentazione raccolta.»
Nello stanzone degli scaffali, armati di un timbro dell’ufficio istruzione, di una vecchia macchina per scrivere e due fotocopiatrici, Turone e Colombo cominciano subito, con le loro mani, l’operazione genuinità. Descrivono ogni foglio trovato, lo timbrano, ne fanno, per sicurezza, due copie, autenticate dalle loro firme pagina per pagina: l’originale entra nel fascicolo ufficiale dell’inchiesta, chiuso in cassaforte; la prima copia viene riposta in una cassa sigillata affidata alla Guardia di finanza di Milano, con l’incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la seconda copia è nascosta, sotto falsa intestazione («Formazioni comuniste combattenti»), tra i fascicoli delle indagini di un collega di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno. Il lavoro è massacrante: sono circa cinquemila, complessivamente, i fogli sequestrati a Castiglion Fibocchi.
Sì, gli elenchi degli iscritti a quella che Licio Gelli chiama «l’Istituzione» fanno subito pensare a uno Stato parallelo. Generali e alti funzionari, i vertici dei servizi segreti al completo, il comandante della Guardia di finanza, 52 ufficiali dei carabinieri, prefetti e diplomatici, 44 tra deputati e senatori e molti politici (iscritti a Dc, Psi, Psdi, Pli, Msi…), 16 magistrati. E poi giornalisti, direttori di giornali, editori, banchieri, industriali, manager. Gli affiliati alla loggia sono divisi in 17 gruppi periferici più uno centrale, il gruppo Gelli.
Fra i 962 nomi trovati negli elenchi ci sono anche tre ministri: i democristiani Franco Foschi e Gaetano Stammati e il socialista Enrico Manca (tessera numero 2148, ha sempre negato la sua iscrizione, sostenuto da una sentenza stilata dal giudice Filippo Verde). Di un altro ministro Dc, Adolfo Sarti, a Castiglion Fibocchi si trova la domanda autografa di affiliazione, insieme a quella di un professore universitario, Antonio Martino, che diventerà ministro più di dieci anni dopo sotto le bandiere di Forza Italia. Negli elenchi compare anche il nome di Pietro Longo, segretario del Partito socialdemocratico. Della loggia fanno parte anche tutti i responsabili dei servizi di sicurezza (il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, il generale Giulio Grassini, capo del Sisde, il prefetto Walter Pelosi, direttore del Cesis), molti personaggi di rilievo in organico (Pietro Musumeci, Sergio Di Donato, Mario Salacone, Antonio Cornacchia, Vincenzo Rizzuti, Elio Cioppa…) e molte vecchie conoscenze dei servizi del passato (Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D’Amato…). Gelli stesso, d’altra parte – secondo un rapporto del Sid di Miceli – aveva fatto parte del servizio, con un recapito telefonico presso gli uffici del Sid e un nome di copertura, «Filippo».
Il potere della P2 nei confronti dei vertici militari è testimoniato da un episodio inquietante avvenuto nel 1973: Gelli riesce a convocare, per telefono e nel giro di poche ore, una riunione a casa sua, a villa Wanda, a cui partecipano, oltre al procuratore generale Spagnuolo e al colonnello Pietro Musumeci, tre altissimi ufficiali dei carabinieri: il comandante della divisione Pastrengo di Milano Giovan Battista Palumbo, il comandante della brigata di Firenze Luigi Bittoni e il comandante della divisione di Roma Franco Picchiotti. Ai tre generali Gelli impartisce istruzioni, «da diramare poi per via gerarchica», sulla necessità di sostenere un governo di centro. I tre alti ufficiali che corrono ad Arezzo a casa di Gelli sono gli stessi che nel 1964 erano stati protagonisti (insieme a Romolo dalla Chiesa) del piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo, il primo progetto golpista della storia repubblicana.
Ma nell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi non ci sono soltanto gli elenchi degli affiliati (in ordine alfabetico e per settori d’attività), con tutta la documentazione allegata, notizie sul tesseramento, ricevute dei versamenti, domande in sospeso. Nella cassaforte sono stati trovati anche altri fascicoli intestati a persone, tessere sospese, codici segreti. E dalla valigia sequestrata a Castiglion Fibocchi sono estratte anche 33 buste sigillate con firma di Gelli sulle chiusure e intestazioni diverse: «On. Claudio Martelli»; «Calvi Roberto vertenza con Banca d’Italia»; «Accordo finanziario Flaminio Piccoli-Rizzoli»; «Accordo Eni-Petromin»; «Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli»…
Per timore che possa cominciare la proliferazione selvaggia di notizie false, diffuse per sollevare polveroni e screditare l’inchiesta, Colombo e Turone propongono al procuratore della Repubblica di Milano Mauro Gresti di emettere un comunicato, una sorta di diffida: non potrà essere considerata veritiera alcuna notizia sulla documentazione sequestrata, se non proveniente dal Palazzo di giustizia di Milano. Gresti non è d’accordo. Anzi, in un primo momento, il giorno dopo la perquisizione, propone addirittura la restituzione a Gelli dei documenti (le buste sigillate, per esempio) che non riguardano direttamente il caso Sindona, origine della perquisizione. I due giudici istruttori non prendono neppure in considerazione la proposta. Ma anche Gresti si ricrede subito, e l’analisi dei documenti comincia.
Fuori dal Palazzo di giustizia, intanto, il grande pubblico ancora non sa nulla dell’indagine P2 e delle scoperte dei giudici milanesi. Eppure qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo. La notizia comincia infatti a trapelare. La prima informazione sulla perquisizione a Gelli viene data dal telegiornale la sera di venerdì 20 marzo. Il giorno dopo, sabato 21, il «Giornale» di Montanelli la comunica così: «Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, “Venerabile Maestro” della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica».
Strana notizia: non tanto per i riferimenti di luogo (il ritrovamento è avvenuto non a villa Wanda ad Arezzo, ma alla Giole di Castiglion Fibocchi), quanto invece per gli accenni alla Procura di Roma e a Domenico Sica. Notizia imprecisa, dunque, ma profezia perfetta: come evocati dal fondo oscuro dei misteri italiani, Roma e Sica dopo poche settimane arriveranno, puntuali, a strappare l’indagine ai giudici milanesi.
Giuliano Turone ha già la scorta armata, perché nei mesi precedenti si era occupato di terrorismo rosso. Ora tocca a Gherardo Colombo: la Guardia di finanza gli mette subito a disposizione una macchina blindata, anche prima che la decisione di assegnargli una scorta sia presa dai suoi superiori. Erano anni duri. Il pensiero che possa capitare perfino qualche strano incidente, in quei giorni, ogni tanto passa nelle menti di Giuliano e Gherardo.
Tensione, preoccupazione, attesa delle reazioni: questi gli stati d’animo dei due giudici. Soli, nello stanzone degli scaffali, con la macchina delle fotocopie che lavora a pieno regime, riflettono sul fatto che il rilievo delle carte trovate va al di là dell’inchiesta giudiziaria. Lo Stato parallelo e segreto disegnato negli elenchi ha un peso istituzionale. Terminata l’operazione genuinità, decidono allora di informare il più alto garante delle istituzioni, il presidente della Repubblica Sandro Pertini. In quei giorni, però, Pertini è in viaggio all’estero. Ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani.
Come rispettare, però, il segreto istruttorio? Dalle discussioni fitte e appassionate nello stanzone esce comunque una determinazione: poiché è stata scoperta un’associazione segreta, un centro di potere extraistituzionale in grado di condizionare in modo occulto l’attività dell’esecutivo, è dovere dei giudici informare l’esecutivo. Dunque Turone e Colombo prendono un appuntamento con Forlani: l’incontro è fissato per il 25 marzo, alle 16, presso palazzo Madama, sede del Senato. Quel giorno i due giudici si muovono verso Roma. Per precauzione, preferiscono non prendere l’aereo. La Guardia di finanza mette a loro disposizione un’automobile con targa civile.
Strano appuntamento, incontro difficile. Arrivati a palazzo Madama, aspettano un paio d’ore, ma Forlani non arriva. I suoi segretari cercano più volte di mettersi in contatto con lui, ma dicono di non trovarlo: dov’è finito il capo del governo? È nel suo ufficio a palazzo Chigi, si scopre più tardi, non si è mai mosso da lì. Si scusa con i due magistrati: c’è stato un equivoco, pensava che l’appuntamento fosse a palazzo Chigi, non a palazzo Madama.
Finalmente alle 18, superato il difficile avvio, l’incontro avviene. Ad accogliere i due giudici arriva il capo di gabinetto del presidente del Consiglio. «Ci guardiamo negli occhi in silenzio, stringendo le nostre carte sottobraccio. Il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, iscritto alla P2, tessera numero 1637.»
Semprini fa accomodare i giudici in anticamera. Altri dieci minuti d’attesa. Poi, finalmente, faccia a faccia con Forlani. Turone e Colombo gli spiegano brevemente il motivo della visita. È possibile che lo conoscesse, che lo avessero già informato, ma Forlani si mostra sorpreso. Sulle prime addirittura titubante. «Gli abbiamo ripetuto che ritenevamo corretto che l’esecutivo fosse informato della scoperta di un’associazione segreta in cui comparivano politici, militari, alti funzionari dello Stato.» Forlani sembra scosso. Fa un po’ fatica a trovare le parole per imbastire una risposta. Subito chiede se le carte trovate potessero essere non autentiche. I due giudici gli mostrano l’organigramma della loggia, gli elenchi degli iscritti e il materiale che dimostrava, almeno in prima analisi, la genuinità delle informazioni contenute nei documenti sequestrati: per esempio alcune domande d’iscrizione alla P2 avevano in calce una firma autografa.
Forlani mostra ai due giudici una faccia dubbiosa. Allora questi estraggono la domanda d’iscrizione firmata, di suo pugno, dal ministro di Grazia e giustizia in carica, Adolfo Sarti. Chiedono: «Signor presidente, ha in ufficio un documento firmato dal suo guardasigilli?». Forlani va alla scrivania, rovista nei cassetti. Estrae un foglio sottoscritto da Sarti.
Cupo, livido, sprofondato nella sua poltrona, Forlani osserva i due fogli, soppesa, medita in silenzio. Si convince. Poi dice ai due giudici: «Datemi tempo di riflettere, dovrò trovare una soluzione. Intanto terrò questi documenti in cassaforte».
È a questo punto che a Colombo e Turone ritorna in mente la faccia del prefetto Semprini. «Presidente,» rispondono «sarebbe bene che queste carte fossero conservate, se possibile, in un modo più riservato. Infatti anche il nome del suo segretario particolare compare negli elenchi.» Forlani ha un lieve sussulto. Riprende i documenti, li consulta, controlla. Poi riemerge. «Va bene, li porterò a casa.»
Il congedo è rapido. Stringendo le mani ai due giudici venuti da Milano, Forlani mormora: «Di solito offro agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare che questa volta non sia il caso».
A Milano continua l’esame delle carte e inizia l’indagine sul loro contenuto. Comincia la sfilata dei testimoni, a partire dalla segretaria di Gelli. Il Maestro Venerabile, invece, rimane all’estero, in Sudamerica, dove ha tanti amici: tra gli iscritti alla P2 ci sono anche i militari golpisti argentini. Il mandato d’arresto firmato da Turone e Colombo resta infruttuoso. Più utile, invece, la ricerca dei conti su cui erano state versate le quote d’iscrizione alla P2: viene individuato il libretto di deposito sul quale venivano versati i contributi alla loggia. Una rapida perquisizione alle banche di Castiglion Fibocchi permette di trovare qualche centinaio di assegni usati per i pagamenti. Nomi, importi, date del versamento corrispondono con quanto segnato sulle carte di Gelli.
I giudici decidono di far avere al presidente del Consiglio altri documenti (per esempio, le fotocopie dei pagamenti delle quote d’adesione alla loggia), per metterlo in grado di decidere con maggior tranquillità quali provvedimenti prendere. Chiedono un nuovo appuntamento, fissato per il 30 marzo. Questa volta, superati i timori del primo viaggio, i due decidono di volare a Roma in aereo. Alla partenza però, all’aeroporto di Linate, piccolo giallo con suspense: il decollo ritarda, una hostess spiega a Colombo e Turone che non torna il conto tra passeggeri e bagagli; c’è, insomma, una borsa di troppo. I due giudici si guardano negli occhi. Il nervosismo sale. Tutti i bagagli sono portati ai passeggeri imbarcati, perché ciascuno riconosca i suoi. Dopo due ore, il mistero è risolto: un semplice errore all’imbarco. E, finalmente, il volo verso Roma può cominciare.
Al secondo incontro, Forlani confessa ai due magistrati di non avere le idee chiare su come comportarsi. «Sto pensando di nominare una Commissione di saggi sulla questione» confida. Lo farà: e la Commissione riterrà pienamente credibile il materiale ritrovato a Castiglion Fibocchi e giudicherà la P2 un’associazione segreta.
Che non ci fosse solamente l’organigramma della loggia occulta, in quel materiale, è stato chiaro fin dall’inizio. Ma l’analisi successiva ha fatto capire quanto importanti fossero anche altri elementi, per esempio i documenti contenuti nelle buste sigillate. «Da quelle buste» ricorda Colombo «affiorava almeno una dozzina di ipotesi di reato su cui indagare.» Sono una miniera, quei documenti. O forse un pozzo nero. C’è, per esempio, materiale di cui il Venerabile non può essere venuto in possesso legalmente: come la busta intestata «Gelli. Fascicolo personale. Riservata» che contiene le schede prodotte su di lui dai servizi segreti.
La busta «On. Claudio Martelli» racconta del misterioso Conto protezione: il conto corrente numero 633369 aperto presso la Ubs di Lugano, in Svizzera (nel 1981 la costituzione di capitali all’estero è reato), con fondi provenienti dal Banco ambrosiano di Roberto Calvi. Un appunto manoscritto attribuisce quel conto ai dirigenti socialisti Claudio Martelli e Bettino Craxi.
La busta «Accordo Eni-Petromin» contiene una relazione sulla vicenda dell’accordo commerciale con i paesi arabi passato alle cronache sotto quel nome, con connesso scandalo per una tangente miliardaria tornata in Italia per finanziare i partiti.
La busta «Riservata. Rubrica contributi» riporta con precisione contabile i versamenti della P2 a vari soggetti, fra cui la corrente di Magistratura indipendente. In seguito a ciò un paio di dirigenti della corrente saranno radiati dalla magistratura.
Le buste su Calvi contengono informazioni riservate su un’indagine giudiziaria in corso in quei mesi sul banchiere: è quel processo per il quale poi Calvi andrà in galera a Lodi, dove tenterà (o inscenerà) il suicidio, e sarà alla fine condannato. Qualcuno dunque, dentro il Palazzo di giustizia di Milano, riferiva a Gelli? A questa domanda cercherà di rispondere un processo contro ignoti che sarà in seguito celebrato a Brescia, la sede deputata ai procedimenti che riguardano i giudici di Milano. Ma gli ignoti resteranno senza nome.
Intanto qualcosa si muove per cercare di frenare le indagini. Si fa vivo il generale (allora a riposo) Giovan Battista Palumbo, ex comandante della divisione Pastrengo dei carabinieri. Telefona a Guido Viola, il pubblico ministero dell’inchiesta, per raccomandargli «la massima segretezza» sugli elenchi P2. Poi il generale arriva di persona nell’ufficio di Viola, chiedendo ancora «la massima discrezione» e comunicando che «dall’alto» giungono segnali di preoccupazione. Il 10 aprile telefona di nuovo, per chiedere se per caso tra le carte sequestrate esistesse un fascicolo sul ministro Sarti. Viola, a questo punto, redige un appunto scritto, indirizzato ai due giudici istruttori, in cui racconta le pressioni di Palumbo e chiede che il generale venga sentito come teste. Il 22 aprile, alle 10 di mattina, Palumbo è convocato a Palazzo di giustizia.
Nella sua testimonianza, l’ex comandante della Pastrengo spiega di aver ricevuto da Pietro Musumeci, capo dell’ufficio controllo e sicurezza del Sismi (l’ufficiale che sarà poi condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna), la richiesta di mettersi in contatto con Viola per sapere se i magistrati avessero avuto intenzione di rendere pubbliche le liste della P2. È Palumbo che racconta, fra l’altro, della convocazione a villa Wanda di Spagnuolo e dei tre generali dei carabinieri. In quella occasione Gelli (che dunque aveva l’autorità di convocare a casa sua, con una semplice telefonata, i vertici dei carabinieri e un alto magistrato) allertò i presenti sui rischi di una possibile svolta a sinistra del Paese. La notizia dell’incontro è poi stata confermata dallo stesso Gelli. Ma perché il generale Palumbo la va a raccontare ai magistrati milanesi? A Turone e Colombo viene un sospetto: che quella notizia potesse servire come pretesto ai magistrati romani per spostare il processo a Roma, togliendolo dalle mani di due giudici considerati poco malleabili.
Comunque i due proseguono il loro lavoro. Ascoltano un gran numero di testimoni, fra cui Edgardo Sogno. Tutti gli interpellati (escluso il deputato milanese democristiano Massimo De Carolis) ammettono di essere iscritti alla P2. Ma che cosa fare degli elenchi? Tenerli sotto il coperchio del segreto istruttorio o comunicarli all’esecutivo? Preoccupati del peso istituzionale di ciò che le indagini vanno confermando a proposito della loggia, Colombo e Turone decidono di scrivere un’ordinanza in cui spiegano che in questo caso è non solo lecito, ma anche doveroso comunicare al governo il contenuto di alcuni atti istruttori di per sé coperti da segreto.
L’ordinanza, del 27 aprile, è inviata a Forlani. Nel frattempo notizie del ritrovamento dei documenti P2 filtrano con sempre maggior insistenza sulla stampa. Il clamore aumenta. Ma i giornali sovrappongono elementi diversi, equivocano tra lista P2 e tabulato dei 500 (l’elenco degli esportatori eccellenti di capitali che si diceva fosse in mano a Sindona). «Andreotti, Fanfani, Taviani sono nella lista dei 500» scrivono i settimanali. Tra notizie e smentite, nel Paese sale la febbre.
Intanto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni al governo. Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. I due giudici, chiusi nell’ufficio di Colombo, seguono l’udienza parlamentare attraverso Radio radicale, che la trasmette in diretta. «La nostra sensazione immediata» raccontano «è che il capo del governo volesse scaricare sui magistrati milanesi la responsabilità della pubblicazione o meno delle liste.»
Il giorno dopo, mercoledì 20 maggio, i titoli dei quotidiani confermano quella sensazione: «Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla P2» («Corriere della Sera»); «Il presidente si rimette alla magistratura per la pubblicazione della lista» («il Giornale»); «Forlani auspica che i magistrati rendano noti i nomi della P2» («l’Avanti!»).
Immediatamente da Palazzo di giustizia parte per palazzo Chigi una lettera, firmata da Turone, Colombo e dal consigliere istruttore Amati. Nero su bianco, i giudici mandano a dire a Forlani che ritengono certamente coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a loro, ma non «il restante materiale trasmesso», la cui pubblicazione «è tale da non pregiudicare minimamente né la conduzione, né l’esito dell’istruttoria in corso».
De Martino annuncia che la Commissione Sindona da lui presieduta avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste ottenute dai magistrati. Nello stesso giorno, il telegiornale della notte dà la notizia: la presidenza del Consiglio ha deciso di rendere pubblici gli elenchi degli appartenenti alla loggia massonica P2. E così avviene. Il Paese, scosso, scopre di aver avuto un onnipresente centro occulto di potere, un governo ombra fuori e sopra le istituzioni democratiche.
Una settimana dopo, cade il governo Forlani.
Dopo il terremoto, si mostra qualche segno di rinnovamento. Nasce il primo governo laico della storia della Repubblica, guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini. È varata una Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Tina Anselmi. Cambiano i vertici dei servizi di sicurezza. È approvata una legge dello Stato, in attuazione dell’articolo 18 della Costituzione, che vieta le associazioni segrete e scioglie la P2.
Ma che cos’è la P2? Un’associazione culturale, un circolo esoterico, un club di potenti, una lobby d’affari, un’agenzia della sovversione, un partito trasversale? Secondo i giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo, Gelli – scrivono nella sentenza-ordinanza che concluderà il loro lavoro – è «il garante, in un certo senso, della “costituzione materiale” di un’oligarchia occulta, potente ma ricattabile per sua intrinseca natura». È «il “notaio” di quel potere oligarchico parallelo che, negli anni Settanta e sino all’inizio degli anni Ottanta, si stava impadronendo, gradualmente e impercettibilmente, delle istituzioni della Repubblica».
Il terremoto si assesta ben presto. Il 2 settembre 1981 la sezione feriale della Corte di cassazione, presieduta da Giovanni Cusani (che contemporaneamente, in sede disciplinare, difendeva davanti al Csm un giudice iscritto alla P2, Elio Siggia, poi espulso dalla magistratura), toglie l’inchiesta ai giudici di Milano. Colombo e Turone sono costretti a passare le carte a Roma. Così la profezia del «Giornale» si realizza. Il processo, dopo soli sei mesi dal ritrovamento dei documenti di Gelli, parte per il porto delle nebbie, per il deserto di sabbia. Vincono il procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci e il pubblico ministero Domenico Sica detto «Rubamazzo», che avevano sollevato un conflitto di competenza con Milano, chiedendo di continuare nella capitale il processo P2.
Sica nelle settimane precedenti era venuto a Milano, con atteggiamento cortese, per parlare con Turone e Colombo. Aveva comunicato di aver aperto anch’egli, a Roma, un fascicolo intestato P2. Aveva chiesto se era possibile collaborare. Ma appena rimesso piede a Roma non aveva risparmiato alcun colpo basso per ottenere il processo: aveva addirittura emesso un’ordinanza con cui intimava ai giudici milanesi di trasmettergli gli atti. Un non senso giuridico, poi citato come esempio di aberrazione procedurale anche nel manuale di procedura penale di Franco Cordero. Eppure, alla fine, la Cassazione gli concede il processo.
Risultati? Vincono le nebbie, trionfa la sabbia. L’inchiesta si smarrisce. Sono abbandonate le piste più interessanti che potevano essere battute. Solo due esempi: i rapporti tra la vecchia Rizzoli inquinata dalla P2 e la Dc; e il Conto protezione. Sui primi non è stato cercato nulla. Sul secondo la ricerca è stata fatta senza troppa convinzione. Le rogatorie internazionali per ottenere dalla Svizzera informazioni sul misterioso conto attribuito da Gelli a Martelli e Craxi non hanno ottenuto risultati. È stato necessario aspettare il febbraio 1993, quando nel corso dell’inchiesta Mani pulite dietro il conto Ubs numero 633369 è apparsa la figura di Silvano Larini, gran cassiere delle tangenti del Partito socialista e uomo-ombra delle finanze di Craxi.
Eppure, benché spezzettata e depotenziata dai capi della procura romana, l’inchiesta riesce ad arrivare al capolinea, nell’autunno 1991. E comunque con risultati pesanti per Gelli: il pubblico ministero Elisabetta Cesqui e il giudice istruttore Francesco Monastero chiedono la sua incriminazione per cospirazione politica contro gli organi dello Stato. La P2, si legge nelle seicento pagine della requisitoria Cesqui, è «una struttura occulta che con mezzi illeciti è in grado di creare sedi decisionali diverse e parallele a quelle legittime», è «una vera struttura ombra rispetto agli organi dello Stato e in grado di espropriarne di fatto il potere pur essendo naturalmente priva di qualunque legittimazione».
E Gelli? Continua per un po’ a mandare messaggi, altalenando tra il tono rassicurante dell’uomo d’affari con i capelli ormai bianchi e quello sottilmente minaccioso di chi può ancora far scattare terribili ricatti. In una lettera inviata a tutti gli iscritti della loggia, datata 1° giugno 1981 (due mesi e mezzo dopo il sequestro dei documenti a Castiglion Fibocchi), il Venerabile, dalla latitanza, scrive: «Sappi, tuttavia, che questo “ramo” non cesserà di esistere, e – anche se rimarrà privo delle sue peculiari caratteristiche che lo avevano contraddistinto fino a oggi – la sua stessa sopravvivenza sarà per noi fonte di gioia e di soddisfazione».
La domanda che rimane senza risposta è quella su chi, fuori e sopra la P2, avesse il potere di indirizzarla. A chi rispondeva il volonteroso funzionario del doppio Stato Licio Gelli? Chi faceva parte della «piramide rovesciata» che stava sopra il Venerabile, secondo l’immagine richiamata dalla Commissione parlamentare sulla P2? La loggia ha certo goduto di importanti coperture politiche in Italia e di forti rapporti internazionali, soprattutto con agenzie americane. A questo proposito esiste la testimonianza di Richard Brenneke, ex agente della Cia, che in una clamorosa intervista televisiva al Tg1 nel luglio 1990 afferma che «il governo degli Stati Uniti ha mandato soldi alla P2. La somma ha toccato anche la cifra di 10 milioni di dollari al mese. I miliardi della Cia per la P2 sono serviti per contrabbandare armi e droga, ma soprattutto per destabilizzare». La loggia di Gelli, secondo Brenneke, sarebbe servita «per creare situazioni favorevoli all’esplodere del terrorismo in Italia e in altri Paesi europei agli inizi degli anni Settanta».
E che cosa pensare, ancora, delle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, uomo di Cosa Nostra diventato collaboratore di giustizia? «Pippo Calò, Salvatore Riina, Francesco Madonia avevano somme di denaro investite a Roma attraverso Licio Gelli che ne curava gli investimenti» dice Mannoia. «I mafiosi delle cosche “perdenti”, cioè Salvatore Inzerillo e Stefano Bontate, avevano Sindona, gli altri, i “vincenti”, i corleonesi, avevano Gelli.» Licio Gelli è dunque il successore di Sindona nei rapporti con la mafia, il colletto bianco di Cosa Nostra?
Il ricco curriculum giudiziario di Licio Gelli comprende innumerevoli indagini, molti processi e qualche condanna. Dodici anni per bancarotta fraudolenta nel fallimento del Banco ambrosiano, per avere distratto una parte dei soldi della banca guidata da Roberto Calvi (iscritto alla P2). Dieci anni per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, poiché Gelli è stato riconosciuto l’ispiratore dell’azione attuata da Musumeci e Belmonte, i due ufficiali del Sismi (iscritti alla P2) che tentarono di accreditare la «pista internazionale» facendo ritrovare sul treno Taranto-Milano esplosivo, armi e biglietti aerei intestati a un cittadino tedesco e a uno francese.
Il grande processo romano sulla P2, dopo lo scippo a Milano, è stato invece un fallimento, malgrado l’ottimo lavoro fatto dal pubblico ministero Elisabetta Cesqui. Il dibattimento si conclude con una sentenza secondo cui la loggia non è un’organizzazione che ha cospirato contro lo Stato. E dopo le condanne comunque inflitte in primo grado e in appello, la Cassazione non ha potuto far altro che constatare l’arrivo della prescrizione.
Quanto a Gelli, per il suo ruolo nella P2 non è stato processato e non è neppure processabile, perché il reato contestato era quello di cospirazione politica mediante associazione e lui ha avuto l’accortezza di farsi arrestare in Svizzera, che non ha concesso all’Italia l’estradizione per i reati associativi. Ha evitato inoltre una condanna per sovvenzione di banda armata per i suoi finanziamenti all’estremista di destra Augusto Cauchi, perché la Corte di cassazione ha declassato il gruppo di Cauchi da banda armata ad associazione sovversiva, per la quale i codici non prevedono l’autonoma figura criminosa del «sovvenzionatore».
Per il resto, la prescrizione lo ha tolto da molti guai. Lo ha salvato da una condanna per procacciamento di notizie riguardanti segreti di Stato e anche dalla condanna penale per calunnia nei confronti di Turone, Colombo e Viola. La vicenda è del luglio 1981, quando nel doppiofondo di un valigia sequestrata alla figlia di Gelli, Maria Grazia, all’aeroporto di Fiumicino, vengono trovati, oltre al Piano di rinascita democratica, anche i codici di inesistenti conti bancari in Svizzera intestati ai magistrati. Il Venerabile, 25 anni dopo, ha però dovuto almeno risarcire il danno in sede civile: con 13 dei lingottini d’oro scoperti nelle fioriere di villa Wanda, 1300 grammi d’oro che Turone e Colombo hanno devoluto all’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna e alle Nonne argentine di Plaza de Mayo (erano iscritti alla P2 anche i generali golpisti argentini Emilio Massera e Carlos Suárez Mason).
Gelli è oggi indagato nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Roberto Calvi aperta dal sostituto procuratore Luca Tescaroli. Quanto ai rapporti con la mafia, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non hanno finora trovato conferme sufficienti a imbastire un processo.
Nel 1981, scoperti gli elenchi della loggia segreta, erano sbocciate grandi speranze e germinate grandi paure. Una parte del Paese sperava che lo scandalo avviasse il rinnovamento della vita politica e istituzionale; un’altra temeva che il proprio potere si incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
La Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi dichiara le liste della loggia, con i suoi 972 nomi, «autentiche» e «attendibili», ma incomplete, e in anni di lavoro raccoglie un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere. Il «Piano di rinascita democratica» e il «Memorandum sulla situazione politica italiana» – programma politico della P2, sequestrati il 4 luglio 1981 all’aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo della valigia di Maria Grazia Gelli – riletti oggi, risultano profetici. Prevedono, infatti, di «usare gli strumenti finanziari per l’immediata nascita di due movimenti, l’uno sulla sinistra e l’altro sulla destra». Tali movimenti «dovrebbero essere fondati da altrettanti club promotori». Nell’attesa, il Piano suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile «inserirsi nell’attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il partito». Con «un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi» si potrebbe poi «provocare la scissione e la nascita di una libera confederazione sindacale». Per quanto riguarda la stampa, «occorrerà redigere un elenco di almeno due o tre elementi per ciascun quotidiano e periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro»; «ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra». Poi bisognerà: «acquisire alcuni settimanali di battaglia», «coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata», «coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale», «dissolvere la Rai in nome della libertà d’antenna»; «punto chiave è l’immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese». Tecnologia a parte: preveggente, no?
La giustizia va ricondotta «alla sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di eversione». Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e dei giudici, «l’istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti», la «riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento».
Il Piano di rinascita democratica riciclò dopo il 1974 il personale politico del composito «partito del golpe», dandogli una strategia che sostituiva lo scontro per la conquista dello Stato con l’occupazione dei gangli vitali dello Stato. Il club dell’oltranzismo atlantico, dell’anticomunismo a tutti i costi, si pose l’obiettivo di lavorare dentro i «limiti» della democrazia: stravolgendola però, occupando e corrompendo le istituzioni dall’interno. Trent’anni dopo, a detta di molti, quel piano si sta realizzando. «Tutti se ne sono abbeverati, tutti ne hanno preso spunto» si è vantato più volte Gelli. Il Piano auspica l’abolizione del monopolio televisivo della Rai: fatto. La conquista della tv privata: fatto. Il superamento del sistema dei partiti della Prima Repubblica e il passaggio a un sistema politico bipolare: fatto. La restaurazione del principio meritocratico nella scuola: e Gelli si è congratulato con il ministro della Pubblica istruzione Maria Stella Gelmini per la sua riforma «che riporta un po’ di ordine finalmente». Altri obiettivi sono in via di realizzazione: la riduzione del numero dei parlamentari, la responsabilità civile dei magistrati, il controllo dell’esecutivo sul pm, la separazione delle carriere e addirittura gli «esami psico-attitudinali preliminari» all’assunzione in magistratura.
Intanto il giovane palazzinaro milanese che prese la tessera numero 1816, dopo una brillante carriera imprenditoriale è diventato leader politico del centrodestra e più volte presidente del Consiglio. Per la P2 Berlusconi subisce il suo primo processo, e con esito per lui negativo. La Corte d’appello di Venezia nel maggio 1990 ritiene infatti provato che Berlusconi abbia mentito davanti al giudice quando, il 27 settembre 1988, dice sotto giuramento di essersi iscritto alla loggia «poco prima che esplodesse lo scandalo» e di non aver «mai pagato una quota d’iscrizione». L’affiliazione era invece avvenuta all’inizio del 1978, quindi più di tre anni prima che i giudici Turone e Colombo trovassero le liste; e agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 vi sono le prove del suo pagamento dell’iscrizione. Berlusconi non viene comunque condannato, perché il reato di falsa testimonianza è estinto per effetto dell’amnistia del 1989.
La bugia non è innocente. Aiuta a minimizzare l’adesione alla loggia di Gelli, liquidata con qualche battuta ironica («Ma come, io sono il primo costruttore italiano di città e questi mi definiscono “apprendista muratore”?»). Ma serve soprattutto a tentare di nascondere che c’è stato un periodo – oltre tre anni – in cui le relazioni piduiste hanno prodotto i loro frutti e sono state determinanti per i suoi affari immobiliari: per ottenere credito dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2, con ben otto alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei paschi di Siena (era piduista il direttore generale Giovanni Cresti). Tanto che la Commissione parlamentare sulla P2 scrive nella sua relazione che gli imprenditori Silvio Berlusconi e Giovanni Fabbri (il re della carta) «trovarono appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio».
Fatte le case, bisogna venderle: e non fu facile, per Berlusconi, che agli inizi della sua carriera incappò in una fase di crisi immobiliare. Lo soccorse un altro «fratello» della loggia segreta, il napoletano Ferruccio De Lorenzo (già sottosegretario liberale in un governo Andreotti e padre di Francesco, futuro ministro della Sanità e futuro imputato di Mani pulite). Ferruccio De Lorenzo acquistò, come presidente dell’Enpam (l’Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di appartamenti di Milano 2. L’Enpam decise poi di affidare a Berlusconi anche la gestione del Teatro Manzoni di Milano, che era controllato dall’ente.
Oggi tra i collaboratori più stretti di Berlusconi c’è Fabrizio Cicchitto (tessera 2232), ex socialista diventato capogruppo alla Camera del Popolo della libertà e portavoce televisivo delle ragioni del capo. Antonio Martino, amico personale del mancato presidente americano John McCain, dopo essere stato ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi e ministro della Difesa nel secondo e terzo, oggi è deputato del Pdl e membro della Commissione difesa. Publio Fiori (tessera 1878, ma con sentenza del Tribunale civile di Roma che sancisce la sua estraneità alla loggia), ex democristiano andreottiano, è diventato con Berlusconi vicepresidente della Camera, più volte sottosegretario e una volta ministro (dei Trasporti). Gustavo Selva (tessera 1814, ma anch’egli con sentenza che afferma la sua non appartenenza alla loggia) non è stato rieletto parlamentare dopo essere stato coinvolto in uno scandalo per aver usato un’autoambulanza come taxi in un giorno di traffico particolarmente congestionato a causa della visita a Roma del presidente George W. Bush.
Sulla sponda del centrosinistra si muove Rolando Picchioni (tessera 2095), ex democristiano diventato membro del Partito democratico e presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura di Torino, che gestisce la parte culturale della Fiera internazionale del libro. Nell’area di centrosinistra si muove anche Enrico Manca (tessera 2148), già deputato e ministro socialista, ma soprattutto presidente della Rai negli anni in cui Fininvest, grazie alla pax televisiva, raggiungeva il concorrente pubblico: oggi dirige l’associazione Polis per il rinnovamento della politica e della democrazia ed è presidente dell’Istituto per lo studio dell’innovazione nei media e per la multimedialità (Isimm).
Tra i tanti giornalisti P2, è ancora all’opera Roberto Gervaso (tessera 1813), l’uomo che presentò Berlusconi a Gelli. Maurizio Costanzo (tessera 1819) è stato un uomo tv potentissimo e trasversale. Paolo Mosca (tessera 2100) scrive libri e dirige giornali di gossip. Gino Nebiolo (tessera 2097) ha scritto sul «Foglio» di Giuliano Ferrara. Roberto Ciuni (tessera 2101) ha collaborato al «Giornale» e a «Panorama». Fabrizio Trecca (tessera 1748) ha lavorato per le reti Mediaset. Massimo Donelli (tessera 2207), il più giovane dei giornalisti iscritti alla P2, oggi è direttore di Canale 5, rete ammiraglia dell’impero berlusconiano.
Angelo Rizzoli, che dopo lo scandalo P2 perse la casa editrice e il «Corriere della Sera», che era diventato il giornale della loggia di Gelli, oggi si è riciclato come produttore cinematografico e televisivo e lavora sia con la Rai sia con Mediaset. Vittorio Emanuele di Savoia (tessera 1621), dopo decenni passati a fare il mediatore d’affari non sempre limpidi, nel 2002 ha vinto la sua lunga battaglia per poter tornare in Italia, ma quattro anni dopo ha rischiato di non poter più ripartire, arrestato su richiesta del pubblico ministero di Potenza Henry Woodcock che ha poi ottenuto il suo rinvio a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, in un affare che riguardava le licenze per piazzare videopoker in giro per l’Italia.
Forse i più attivi e fedeli continuatori delle tradizioni della loggia sono oggi Giancarlo Elia Valori e Luigi Bisignani. Valori, detto «Fiore di loto», grande amico di Mino Pecorelli, è l’unico che può vantarsi di essere stato espulso dalla P2: per «indegnità morale». È un uomo ricco di relazioni interne e internazionali, infaticabile scrittore di libri e instancabile tessitore di rapporti e di alleanze. Bisignani, ex giornalista che ha sempre negato la sua iscrizione alla P2, ai tempi di Mani pulite fu condannato a due anni e sei mesi per il suo ruolo nello smistamento della tangente Enimont. Nel 2008 si è trovato impigliato, con Elia Valori, nell’inchiesta avviata dal magistrato di Catanzaro Luigi De Magistris su un gruppo di pressione e di potere che il pm riteneva fosse una sorta di nuova P2: «Le indagini sul caso Why Not stavano ricostruendo l’influenza di poteri occulti in meccanismi vitali delle istituzioni repubblicane: in particolare stavo ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani, l’ex sottosegretario democristiano Franco Bonferroni e altri, e la loro influenza sul mondo bancario ed economico-finanziario» ha dichiarato a verbale De Magistris il 28 dicembre 2007, ascoltato dai magistrati della Procura di Salerno. «Giancarlo Elia Valori si è occupato spesso di lavori pubblici. L’ipotesi investigativa sulla quale avevo raccolto gravi indizi è quella dell’esistenza di una gestione illegale e anche occulta di settori rilevanti delle istituzioni, con radici in Calabria e ramificazioni in tutto il territorio nazionale. Una sorta di nuova P2, per essere sintetici» ha concluso De Magistris «sulla quale non mi è stato consentito di portare a termine le indagini.»
Quando i magistrati di Roma strappano a Turone e Colombo l’indagine sulla P2, i riflettori si spengono sui due giudici di Milano. In silenzio, terminano l’istruttoria sulla morte di Giorgio Ambrosoli. Sindona il 18 marzo 1986 è condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio. Quarantott’ore dopo la sentenza muore in una cella del carcere di Voghera per un caffè al cianuro. Giuliano Turone è sicuro che si tratti di suicidio: l’estrema beffa di un uomo ormai finito, che non rinuncia però a programmare anche la propria morte come un apparente complotto, come argomenta nel libro Il caffè di Sindona, scritto con Gianni Simoni, il magistrato che ha condotto l’inchiesta sulla fine del bancarottiere.
Gherardo Colombo sperimenterà di nuovo lo scippo romano d’indagine nel 1984, quando in 15 giorni la procura della capitale gli strapperà di mano l’inchiesta sui fondi neri Iri, una storia di tangenti e partiti che aveva portato in galera, sette anni prima di Mani pulite, nientemeno che Ettore Bernabei, il più potente dei manager di Stato, legato alla Dc. In quello stesso anno una camionetta dei carabinieri ha dovuto stazionare giorno e notte sotto casa sua, come misura di sicurezza contro eventuali attentati. La scorta lo ha seguito dappertutto per dieci anni, fino all’agosto 1991.
Poi, diventato pubblico ministero, con Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gerardo D’Ambrosio è stato tra i protagonisti di Mani pulite, l’inchiesta antitangenti che ha cambiato la storia di Milano e dell’Italia. E il suo nome («Di Pietro, Colombo, andate fino in fondo») è gridato durante le fiaccolate contro la corruzione e scritto a vernice spray sui muri della città. Di nuovo l’entusiasmo della ricerca da segugi, di nuovo sul collo il fiato pesante dei partiti. Poi, insieme a Ilda Boccassini, ha rappresentato l’accusa nei processi più difficili della sua vita, quelli sulle «toghe sporche» che avevano per imputati Cesare Previti e Silvio Berlusconi.
Giuliano Turone, invece, lasciato l’ufficio da giudice istruttore, ha fatto il giudice di Corte d’appello, poi il magistrato della Direzione nazionale antimafia, poi ancora il procuratore aggiunto a Milano. In seguito, sia Turone, sia Colombo sono andati a Roma, a fare i giudici alla Corte di cassazione. Entrambi, senza averne mai parlato tra di loro, hanno infine maturato la stessa decisione: lasciare la magistratura.
«Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974,» dichiara Colombo nel marzo 2007 «per tre anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell’Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine, a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante.» Al bilancio spietato consegue un giudizio netto: «Lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità, quando l’illegalità è particolarmente diffusa. Perché la giurisdizione funzioni, è necessario che esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole. In Italia invece la cultura diffusa è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio». Se il lavoro del magistrato non riesce ad aumentare il tasso di legalità, meglio allora lavorare a monte, offrire un contributo educativo, diffondere la cultura delle regole. «A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. È una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice.»
Così Colombo ha cominciato un interminabile giro d’Italia a parlare a migliaia di persone, soprattutto ragazzi, della necessità di tornare alle regole, alla legalità come cultura condivisa. «Non è stata facile, per me, la decisione di abbandonare la magistratura. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli ed Emilio Alessandrini, e dei tanti altri colleghi eliminati dal terrorismo e dalla mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l’atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia.»
A conclusioni simili, Giuliano Turone era arrivato qualche mese prima. Aveva lasciato la Cassazione sottolineando che il sistema non funziona, che nella stessa sezione della suprema corte può succedere che si affermi un principio e il suo contrario. «Ho amato moltissimo la mia professione» spiega «ma è come se, dopo quasi quarant’anni di servizio, io avessi toccato con mano un nodo molto grave che, proprio per il rispetto verso l’istituzione che ho lasciato, trovo giusto affrontare pubblicamente: tutte le corti supreme del mondo sono fatte per avere un numero molto limitato di cause rilevanti, di cui occuparsi con la massima cura; per esempio, in Francia ogni giudice di Cassazione studia, partecipa alla decisione e scrive mediamente 14 sentenze al mese; in Italia, invece, le sentenze di ciascun giudice di Cassazione sono in media 34 al mese. A causa della quantità debordante di ricorsi, la Cassazione è diventata un “sentenzificio” in cui si privilegia la quantità sulla qualità. Questo vanifica la funzione di garante della certezza del diritto che spetta alla Corte: può infatti facilmente capitare che un giorno un collegio giudicante decida in un certo modo su una certa questione e poi scopra che un altro collegio, nell’esaminare la stessa questione due giorni prima, aveva deciso in modo opposto.»
Turone ha scelto di insegnare all’università, scrivere libri e dedicarsi alla sua passione di sempre: il teatro. Da anni, svestita la toga di giudice, la sera saliva in palcoscenico. Oggi può farlo con più agio e libertà: lui, rigoroso custode delle leggi, appassionato cultore delle geometrie inesorabili dell’investigazione, ora indossa ironico e grave i panni mutevoli dell’attore sui palcoscenici milanesi.