Balzani, la Biancaneve tosta che sfida Sala
Per essere due candidati ancora virtuali, lo scontro è già tosto. Né Giuseppe Sala né Francesca Balzani, infatti, sono ufficialmente in campo. Eppure già ci regalano qualche fuoco d’artificio nella campagna per le primarie da cui uscirà il candidato sindaco del centrosinistra a Milano. “Sala? È un po’ vintage, con la sua battuta sulla Milano da bere per pochi: uno slogan di quand’ero ragazzina”, ha detto Balzani. “È più vintage chi ha sostenuto Cofferati in Liguria”, replica Mr. Expo.
Il duello promette insomma di essere vero, maschio e perfino divertente. Balzani ha l’aria da Biancaneve e sorride sempre, ma non sottovalutate la sua grinta. E neppure la sua capacità di raccogliere consensi: “Alle primarie potrebbe vincere”, azzarda il sondaggista Alessandro Amadori, vicepresidente dell’Istituto Piepoli. “A votare va una tribù ben definita che a Milano è composta da circa 80-100 mila persone: sono un popolo fidelizzato, abituato a mobilitarsi, a opporsi, con un sentiment che penalizza il candidato vissuto come ufficiale. È una tribù che amava il Renzi rottamatore, ma non ama più il Renzi di governo: e dunque non ama Sala”.
Staremo a vedere come evolve il sentiment. Intanto Balzani, che rispetto al signore di Expo è ancora meno conosciuta in città, scalda i motori e cerca un accordo con Pierfrancesco Majorino, già candidato della sinistra Pd e Sel, proprio per non dividere i voti del popolo delle primarie.
Ha 49 anni, è nata a Genova, vive da tempo a Milano con il marito Francesco, che insegna diritto all’Università di Bologna, e i tre figli, Teo, Milo e Agata. È stata l’allieva prediletta di Victor Uckmar, giurista di fama internazionale, e ha lavorato con lui come avvocato fino al 2007. Ha insegnato ai corsi di master in diritto tributario alla Bocconi.
Quando si è avvicinata alla politica, lo ha fatto come tecnico: Marta Vincenzi, appena eletta sindaco di Genova, la chiama a fare l’assessore al bilancio per far quadrare i conti. Lei li quadra, tanto che il Pd poi le chiede di presentarsi delle elezioni europee del 2009. Balzani prende la cosa sul serio, fa una campagna elettorale vera e viene eletta. Da secchiona qual è, la prendono sul serio anche a Strasburgo, dove pure gli italiani non godono di grande considerazione: nel 2011 è il primo italiano nominato relatore generale al bilancio europeo.
Due anni dopo, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia resta senza assessore al bilancio, perché Bruno Tabacci decide di far politica a Roma. Anche qui c’è da far quadrare i conti. Lei accetta, sorride, e comincia un lavoro certosino. Il Comune è la più grande azienda di Milano, con 16 mila dipendenti e un bilancio di 2,7 miliardi. Per numero di occupati è poco sotto il decimo posto in Italia, non distante da aziende come Esselunga e Benetton. Per ricavi è intorno al cinquantesimo posto, vicino a Ferrero e Indesit.
Balzani trova un buco da 437 milioni di euro. Per non tagliare assistenza e servizi, s’inventa nel giugno 2013 il metodo delle short list: congela tutte le uscite di tutti gli uffici del Comune, tranne quelle che lei autorizza, sulla base di elenchi precisi e accurati delle spese redatti dagli uffici su grandi fogli A3. Così realizza risparmi per circa 120 milioni e impone un metodo di spesa controllato e trasparente.
Quando, nel luglio 2015, esce dalla giunta Ada Lucia De Cesaris, Pisapia la vuole anche vicesindaco. Fino al 2 dicembre, quando il sindaco la porta al Nazareno, da Renzi, indicandola di fatto come il suo successore.
Buffo: Balzani è del Pd, ma Renzi e il Pd le preferiscono un manager non Pd come Sala. “Non è una partita per un consiglio d’amministrazione”, ribatte lei, “ma per governare e amministrare una città e quindi avere a che fare con le persone”. Del resto, “amministrare non è semplicemente organizzare, ma dare volto ai bisogni, ai sogni, alle paure, alle speranze e alla fiducia di una città. Non è facile trasferire un buon manager in politica, basta pensare a Corrado Passera: Milano, non è un cda”. Ma non c’è niente da fare, il Pd renziano preferisce l’uomo del “miracolo” Expo, incurante dei problemi che bilanci e chiusura delle inchieste sull’esposizione universale potrebbero portare.
A Balzani, il Pd renziano non perdona due peccati: aver sostenuto in Liguria la candidatura Cofferati e non aver votato, a Milano, l’operazione M4. Una storia da raccontare. La giunta Pisapia eredita dall’amministrazione precedente di centrodestra (sindaco Letizia Moratti, direttore generale un certo Giuseppe Sala, all’urbanistica il ciellino Carlo Masseroli, d’accordo i Ds-Pd di Filippo Penati) il progetto della M4, la metropolitana “linea blu” che per Expo avrebbe dovuto collegare l’aeroporto di Linate con la città.
Nel 2014 la giunta “arancione” deve decidere se andare avanti o bloccare il progetto. Ormai è chiaro che per Expo non sarà pronta neppure una stazione, neanche un mezzanino. Il percorso poi è vecchio: passa da San Babila, la piazza più servita di Milano. E infine costa troppo: una bomba a orologeria nei conti del Comune, un debito di 2,2 miliardi di euro destinato a pesare sui bilanci per vent’anni.
Per collegare Linate, basterebbe costruire un raccordo tra l’aeroporto e il passante ferroviario: più rapido e infinitamente meno costoso. Ma il partito trasversale della M4 non cede. Gli accordi con i costruttori ormai sono stati presi. Così, malgrado i dubbi del vicesindaco De Cesaris, dell’assessore Franco D’Alfonso, dello stesso sindaco Pisapia, vincono i metro-talebani, gli ex penatiani Pietro Bussolati e Pierfrancesco Maran.
Balzani, da assessore al bilancio, teme per i conti futuri. Anche il ragioniere capo di Palazzo Marino lancia l’allarme: “Manca un piano di sostenibilità” degli impatti di M4 sui futuri bilanci del Comune. Sarà necessario “rimodulare la spesa e le entrate necessarie per rendere sostenibile le future maggiori spese per gli equilibri di bilancio e per rispettare il patto di stabilità”. Traducendo: ci dovranno essere tagli della spesa e maggiori entrate, cioè meno servizi, più tasse e tariffe più alte.
Balzani non se la sente di votare il progetto e tiene il punto fino in fondo: per non aprire una crisi di giunta con un no, al momento del voto esce dall’aula. Non gliel’ha mai perdonata, il partito trasversale milanese del fare (e dell’incassare). Ora riciclato nel nuovissimo Partito della Nazione che piace tanto a Renzi e che a Milano potrebbe avere il suo primo laboratorio.
Sì, le primarie milanesi saranno una bella battaglia.