Addio a Stiz, il giudice triste che capì piazza Fontana
Ci ha lasciato Giancarlo Stiz, giudice silenzioso. Aveva 87 anni. Ne aveva 43 quando, nel 1971, s’imbattè nella “pista nera” che portava alla strage di piazza Fontana. A Roma i magistrati stavano conducendo l’istruttoria contro Pietro Valpreda, ballerino, anarchico, da due anni imputato “ufficiale” della strage, una strage “rossa”. A Treviso, però, al giudice Pietro Calogero era arrivata la testimonianza di Guido Lorenzon, insegnante spaventatissimo e segretario della sezione Dc di Maserada sul Piave, che aveva ricevuto strane confidenze da un suo vecchio compagno di collegio: un libraio di Treviso di nome Giovanni Ventura che gli aveva parlato di armi, di bombe, di violenza, di un’organizzazione pronta a intervenire. Partono le prime indagini sul gruppo veneto di Ordine nuovo che aveva in Franco Freda il suo leader carismatico. Lorenzon, pur timoroso, accusa. Ventura, spavaldo, nega.
Il fascicolo arriva sul tavolo di Stiz, giudice istruttore, con una richiesta di archiviazione. “Era una materia scottante”, raccontò Stiz a chi scrive, nel 1993, dopo un silenzio durato due decenni. “Per questo l’ho soppesato, quel fascicolo, letto e riletto. Bastava un timbro e la vicenda sarebbe stata chiusa per sempre”. Il timbro dell’archiviazione resta sospeso a mezz’aria. Stiz decide di sentire personalmente Lorenzon e Ventura. “Li ho interrogati a lungo e mi sono subito convinto che Lorenzon diceva il vero e Ventura il falso. Perciò ho respinto la richiesta di archiviazione e ho disposto l’istruttoria formale”. Nasce la prima inchiesta sulla “pista nera”, che sarà poi pienamente confermata da quelle sentenze di Cassazione che pur mandano assolti i singoli imputati, per i quali non sono state trovate, anche a causa dei depistaggi di Stato, prove certe di responsabilità penali individuali. Stiz fa arrestare Freda e Ventura per associazione sovversiva e ricostituzione del partito fascista. Poi ordina l’arresto anche di Pino Rauti, il fondatore di Ordine nuovo. Diventa subito, per una parte dell’opinione pubblica, una “toga rossa”. La prima di una lunga serie. Eppure era tutt’altro che un comunista. Suo padre Paolo era ufficiale dell’esercito. Uno zio era generale dei carabinieri. Giancarlo era cresciuto con un’educazione severa. Studio, casa, unico svago la caccia nei boschi attorno a Belluno. Era destinato anch’egli alla carriera di ufficiale. Solo l’armistizio dell’8 settembre 1943 lo aveva costretto a cambiare progetti: studia legge, entra in magistratura.
Dopo l’arresto di Rauti, iniziano le minacce, le telefonate, le lettere anonime, gli attacchi della politica. La sua faccia lunga e triste sembrava conservare ogni traccia degli attacchi subiti e del grande dolore per una vicenda, pudicamente nascosta, generata dalla situazione in cui la famiglia del piccolo giudice di provincia ha dovuto vivere per anni. Anni di tensione, di vita sotto scorta. E anche, più semplicemente, di trasferimenti impossibili, di carriera professionale bloccata. Volevano fargliela pagare. E ci sono in qualche modo riusciti.
Stiz, chiuso nelle sue giacche di fustagno, cercava di stringersi ai pochi ricordi buoni che gli erano rimasti. La seduta del Parlamento dedicata alla sua indagine, nel 1972, conclusa con un lungo applauso scrosciante. La seduta del Consiglio comunale di Treviso, che lo ha voluto presente per dimostrargli stima e riconoscenza. Le attestazioni di affetto di tanti colleghi e di tanti cittadini. “Per le stragi hanno sofferto le vittime, i morti e i feriti. Hanno sofferto i loro familiari. Ma abbiamo sofferto anche noi, i sopravvissuti. Eppure non mi lamento. È il rischio della nostra professione: lo mettiamo in conto quando la scegliamo. Come si fa a chiudere gli occhi, quando si deve fare il proprio lavoro? Cosa fai, metti un timbro e chiudi tutto? No, non è possibile. Prima c’è il dovere. Rifarei tutto, senz’altro. Chissà, forse anche meglio”.