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Lady Descalzi e la sua società che faceva affari con Eni

Lady Descalzi e la sua società che faceva affari con Eni

Lady Descalzi incombe da anni come un’ombra nera sugli affari africani dell’Eni. Marie Magdalena Ingoba, detta Madò, cittadina congolese, ha sposato molti anni fa Claudio Descalzi, numero uno di Eni che proprio in Congo ha mosso i primi passi della sua carriera. Oggi Madò vive a Parigi e gira il pianeta, ma è ben integrata nel mondo degli affari della Repubblica Democratica del Congo, che ruota tutto attorno agli affari personali del suo eterno presidente, Denis Sassou Nguesso. I business di Madò sono da tempo sotto osservazione. Spuntano nei Panama Papers. Sono lambiti da un’inchiesta giudiziaria in Francia. E ora se ne stanno occupando anche i pm della Procura di Milano che vogliono vedere chiaro nelle attività di Eni in Congo.

Da una rogatoria disposta in Lussemburgo, hanno appena scoperto che Lady Descalzi era fino al 2014 la proprietaria di una società lussemburghese, la Cardon Investments sa, che controlla una serie di società chiamate Petro Service, tra cui la Petro Service Congo, che dal 2012 al 2017 è stata fornitrice di Eni Congo, a cui ha affittato navi e prestato servizi per un valore di 104,8 milioni di dollari. Dunque la compagnia petrolifera di cui Descalzi è ai vertici – fino al 2014 capo del settore Esplorazione e produzione e poi fino a oggi amministratore delegato – avrebbe affidato lavori per molti milioni di dollari a società della moglie di Descalzi. Lo ha scritto ieri il Corriere della sera, che ha registrato anche la netta smentita della signora Descalzi.

La legale che l’assiste in Italia, Nadia Alecci, conferma al Fatto quotidiano che Marie Magdalena Ingoba, raggiunta al telefono, ha detto: “Non so proprio nulla di questa società”. Secondo i documenti arrivati in risposta alla rogatoria chiesta in Lussemburgo dai pm Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari, però, la Cardon Investments è stata venduta l’8 aprile 2014 dalla signora Ingoba. Il compratore è Alexander Haly, uomo d’affari nato nel Regno Unito ma basato a Montecarlo. Sei giorni dopo la vendita, il 14 aprile 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi indica Descalzi come nuovo amministratore delegato di Eni, ruolo che assume il 9 maggio 2014.

Quattro anni dopo, il 5 aprile 2018, De Pasquale, Spadaro e Storari mandano la Guardia di finanza a perquisire abitazioni e uffici di Haly (a Montecarlo), di Roberto Casula (numero tre di Eni) e di Maria Paduano (donna d’affari vicina a Casula). Li ritengono coinvolti “in uno schema corruttivo” che – scrivono i magistrati nel decreto di perquisizione – “ha visto protagonisti Eni spa, da una parte, e agenti pubblici congolesi, dall’altra”. Odore di tangenti per le attività di Eni in Congo, dopo quelle in Nigeria già finite sotto processo.

Secondo l’ipotesi d’accusa, Eni a partire dal 2013 “ottiene il rinnovo delle concessioni petrolifere” trasferendo “quote di partecipazione nei permessi di esplorazione a società offshore dietro le quali si celano pubblici ufficiali congolesi, direttamente o indirettamente collegati al presidente Nguesso”. E, per di più, “nelle transazioni illecite è stata individuata anche una sorta di ‘retrocessione’ di una parte della tangente al corruttore” (cioè a Eni). Prima di questa vicenda, i Panama Papers avevano raccontato che Petro Service Congo era domiciliata a Point Noire, capitale economica del Paese africano, presso la casella postale Bp 4801. La stessa dove era domiciliata la Elengui Ltd, società offshore basata nelle Isole Vergini Britanniche di proprietà di Marie Magdalena Descalzi.

A proposito di questi fatti, la presidente di Eni, Emma Marcegaglia, ha mentito, rispondendo in assemblea alle domande di Re:Common (l’associazione che da anni fa inchieste e campagne contro la corruzione e la distruzione dell’ambiente).

Nell’assemblea del 2017 Marcegaglia ha infatti detto che “non esistono in Congo, a oggi, legami contrattuali di Eni con la società Petro Service” (che invece ha prestato servizi per 104,8 milioni di dollari in cinque anni). In quella del 2018, interrogata sulla casella postale comune tra Petro Service ed Elengui, ha risposto: “Per quanto risulta a Eni, essendo in Congo limitato il numero di caselle postali disponibili, la stessa casella postale viene assegnata a numerose persone e/o società”.

In questa storia scorre anche la birra. Secondo le carte dell’inchiesta francese denominata “Bien mal aquis”, infatti, e come scritto dal settimanale L’Espresso, Marie Magdalena Descalzi sarebbe titolare della African Beer Investment Ltd, registrata alle Mauritius, in società con Julienne Sassou Nguesso, una delle figlie del presidente del Congo, e con Hubert Pendino, considerato il gestore dei tesori del dittatore africano. Ora, se le carte arrivate dal Lussemburgo dicono la verità, della signora Descalzi e del bruciante conflitto d’interessi del marito sentiremo molto parlare.

Eni, tre filoni d’indagine (+1)

La Procura di Milano ha aperto su Eni tre indagini (più una). La prima riguarda tangenti per 197 milioni di dollari che – secondo l’accusa – sarebbero state pagate dalla controllata Saipem per ottenere commesse in Algeria per 8 miliardi di dollari. Il processo di primo grado si è concluso con le condanne dei vertici Saipem e con le assoluzioni, invece, di Paolo Scaroni, ex ad di Eni, e del suo manager per il Nordafrica Antonio Vella, perché sono state ritenute insufficienti le prove per dimostrare che Eni sapesse che cosa faceva la controllata Saipem.

La seconda indagine riguarda il pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere in Nigeria il grande campo d’esplorazione petrolifera Opl 245. Il denaro fu versato su un conto del governo nigeriano, ma poi fu tutto girato ai conti privati di politici locali, tra cui quelli dell’ex ministro del petrolio Dan Etete, con una “retrocessione” – nell’ipotesi d’accusa – anche a uomini Eni. Nel processo di primo grado in corso a Milano sono imputati, tra gli altri, Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi, insieme ad alcuni mediatori dell’affare, tra i quali Luigi Bisignani. Due mediatori, l’italiano Gianluca Di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, sono già stati condannati nel processo con rito abbreviato.

La terza inchiesta, aperta da pochi mesi e ancora nella fase delle indagini preliminari, riguarda il rinnovo delle concessioni petrolifere Eni in Congo. Secondo i pm – coordinati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale – il rinnovo è stato propiziato da tangenti ai politici locali, sotto forma di partecipazioni nei permessi di esplorazione a società offshore da loro controllate. Con una parte del malloppo che sarebbe tornata a uomini Eni.

C’è poi una quarta indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Laura Pedio, che riguarda un presunto complotto ordito dai vertici Eni (sotto inchiesta l’ex capo degli affari legali Massimo Mantovani) per screditare due consiglieri d’amministrazione, Luigi Zingales e Karina Litvack, e depistare le indagini della Procura di Milano.

 

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Il Fatto quotidiano, 21 dicembre 2018
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