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L’Espresso. Come si uccide un settimanale

L’Espresso. Come si uccide un settimanale

Mesto crepuscolo per quello che è stato il più grande settimanale italiano, un pezzo di storia del giornalismo e anche una macchina che faceva soldi, un incubatore del costume e uno specchio della politica. Alle trasformazioni epocali del mercato e della comunicazione si aggiunge ora una gestione da brividi.

L’Espresso è stato il settimanale che ha raccontato la strage di piazza Fontana e il golpe Borghese, lo scandalo Sifar e il presidente Leone, le parabole di morte di Michele Sindona e di Roberto Calvi, le battaglie per il divorzio e l’aborto, l’ascesa di Silvio Berlusconi, i suoi processi e i Panama Papers.

Ha avuto direttori come Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, Livio Zanetti e Claudio Rinaldi, Giovanni Valentini e Giulio Anselmi. “Padroni” come Carlo Caracciolo, ben attenti a lasciare la briglia sciolta ai cavalli di razza della redazione. Firme come quelle di Camilla Cederna e Umberto Eco, Alberto Moravia e Alberto Arbasino, Antonio Gambino e Giorgio Bocca, Giuseppe Turani ed Edmondo Berselli, Sandro Magister e Chiara Beria d’Argentine, Leo Sisti e Fabrizio Gatti. E poi i nostri Antonio Padellaro, Gad Lerner, Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo.

Non bastano i cambiamenti tecnologici e di mercato – che ci sono stati, rapidi e spietati – per spiegare la fine del coraggio di raccontare il Paese sfidando i poteri. Una grande macchina di libertà è stata negli ultimi anni frenata, inceppata, bloccata, smontata da padroni che se la sono passata l’un l’altro come fosse una vecchia linotype da museo del Novecento. La verità è che la vogliono usare, ma la preferiscono flessibile, mansueta, inoffensiva, afona.

Oggi l’Espresso resiste, ma ormai è un vascello in cui la ciurma non parla nemmeno più con il capitano. L’ultima scena: tutti i redattori scioperano, il 3 e 4 settembre, per mandare un segnale forte di protesta alla direzione e alla attuale proprietà, impedendo l’uscita del settimanale; ma il direttore manda ugualmente in edicola un numero messo insieme con pezzi vecchi o commissionati fuori dalla redazione. Un esperimento di post-giornalismo senza neppure l’Intelligenza artificiale. Vecchi trucchi ottocenteschi da padroni del vapore.

È il punto d’arrivo di una vicenda iniziata nel 2016, quando prende il via il carosello dei direttori e delle proprietà. La Cir della famiglia De Benedetti vende il settimanale a Exor, la cassaforte olandese della famiglia Agnelli-Elkann, che ha scoperto un’irrefrenabile passione per l’informazione.

L’Espresso, in edicola dal 1955, smette di essere autonomo e passa alla distribuzione in abbinamento obbligatorio, la domenica, con il quotidiano La Repubblica. Il direttore Bruno Manfellotto lascia la scrivania a Luigi Vicinanza. Questi lascia il posto a Tommaso Cerno, uomo dai mille volti, poi sostituito da Marco Damilano e poi ancora da Lirio Abbate.

Intanto, nel marzo 2022, John Elkann si sbarazza del settimanale e lo vende a Danilo Iervolino, l’imprenditore campano diventato miliardario vendendo l’università telematica Pegaso. A dicembre 2022, Iervolino sostituisce Abbate con Alessandro Mauro Rossi. Abbate se ne va, torna a Repubblica e intenta una causa alla società editrice di Iervolino. Ma intanto è iniziata la grande fuga: se ne vanno, tra gli altri, Altan, Makkox, Barbara Alberti, Michela Murgia, Michele Serra.

Dal settembre 2023 il settimanale torna in edicola da solo, il venerdì, non più abbinato a Repubblica. Ma tre mesi dopo, Iervolino, che era entrato nei salotti buoni promettendo di fare l’editore, almeno nel tempo libero che gli lasciava la Salernitana calcio, passa il 51 per cento dell’Espresso al gruppo petrolifero Ludoil della famiglia Ammaturo, altra new entry nel fatato mondo dell’editoria 2.0.

Rossi si dimette e viene sostituito dal suo vice, Enrico Bellavia, cresciuto nella Palermo dove le inchieste sulla mafia s’incrociavano con le stragi. A maggio, Donato Ammaturo destituisce Bellavia e mette al suo posto Emilio Carelli, che fa il salto del tavolo, si alza dalla poltrona di amministratore delegato della società editrice e si siede su quella di direttore. Di salti ne aveva già fatti altri: dal giornalismo Mediaset ai bei tempi di Silvio Berlusconi al Parlamento con la casacca Cinquestelle quando questa era vincente, per poi dimenticare la sua esperienza politica e tornare ai giornali, moderno centauro manager-direttore.

Negli ultimi mesi, la redazione è costretta a ingoiare molti bocconi amari. È vietato disturbare (troppo) i manovratori. “Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. Viene bloccato mentre andava in stampa un pezzo di Carlo Tecce su Maurizio Leo, viceministro con delega alle finanze del governo di Giorgia Meloni. Scompare un articolo di Susanna Turco su Elly Schlein, giudicato troppo favorevole alla segretaria del Pd. Sparisce dal giornale un’inchiesta di Paolo Biondani sul caporalato nelle aziende della moda. Dal web si dematerializza un pezzo sulla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, che ricompare qualche tempo dopo corredato da una robusta replica della ministra.

Poi, cinque giorni dopo essere diventato direttore, la sera di mercoledì 5 giugno, al momento della chiusura in redazione del suo primo numero, Carelli fa saltare un pezzo su Matteo Salvini, già impaginato e titolato: “Il nodo infrastrutture. Il ministro capo-varo sfortunato”. La firma è dell’inviato Gianfrancesco Turano, che raccontava come Salvini puntasse, per le elezioni europee, su cantieri e opere pubbliche da inaugurare come spot elettorale, anche grazie al mare di denaro arrivato con il Pnrr.

Il pezzo è giudicato da Carelli (che già nel suo discorso d’insediamento aveva spiegato di essere favorevole alle grandi opere e al ponte sullo Stretto) troppo critico nei confronti del ministro delle Infrastrutture e soprattutto inadatto al momento: non si deve attaccare un leader politico prima delle elezioni. Il direttore promette che l’articolo sarebbe stato rimesso in pagina la settimana successiva. A urne chiuse.

In questo clima, l’assemblea di redazione vota un pacchetto di cinque giorni di sciopero e decide di spegnere i computer mercoledì 4, e poi anche giovedì 5, per impedire l’uscita in edicola del numero di venerdì 6 settembre.

Il consiglio d’amministrazione e il direttore, come un sol uomo, rispondono facendo uscire comunque il giornale e ribadendo “l’impegno dell’editore, non solo economico, a tutela della testata”. Dicono che il piano editoriale “è già stato illustrato alla redazione dal direttore”. E che il comportamento della redazione danneggia il giornale ed “edulcora”, proprio così, “tutti gli sforzi fatti in queste settimane con apprezzabili risultati e un significativo aumento delle vendite”, arrivate quasi alla soglia delle 10 mila copie in edicola.

Ieri, 11 settembre 2024, assemblea di redazione. Con il tentativo dei giornalisti di riaprire almeno normali relazioni sindacali con azienda e direzione. Intanto il sito dell’Espresso è stato reso inaccessibile ai redattori. Qualcuno (chi?) sta lavorando alla sua ristrutturazione.

La gloriosa macchina che titolava (era il 1955) “Capitale corrotta, nazione infetta” è stata narcotizzata, non ancora piegata.

Il Fatto quotidiano, 12 settembre 2024
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