MILANO

Il Modello Milano è morto: la rendita ora uccide la città

Il Modello Milano è morto: la rendita ora uccide la città

“In questi anni non si è fatta rigenerazione urbana, ma densificazione a vantaggio zero per i cittadini” (Elena Granata)

Nell’agosto torrido milanese, in cui sembra che tutto sia sospeso (anche il passaggio di tram e bus), continua invece lo scontro sul futuro della città. Da una parte il sindaco Giuseppe Sala, il ministro Matteo Salvini, i costruttori e i loro sostenitori a ogni costo, per interesse o ideologia: si preparano alla battaglia d’inizio settembre, quando in Parlamento sarà discussa la legge che cercherà di cancellare con un colpo di spugna le inchieste della Procura su “Grattacielo selvaggio” e di rendere legittime le costruzioni fuorilegge, trasformando l’abuso in legge.

Dall’altra parte i cittadini dei comitati, i magistrati, i loro consulenti e quel pezzo di società civile che ha capito che il Modello Milano fondato sulla rendita, sullo sviluppo immobiliare e sulla cementificazione è ormai insostenibile e dannoso per la città.

Lo dice, rispondendo a Repubblica, Alessandro Balducci, professore del Politecnico ed ex assessore all’urbanistica della giunta di Giuliano Pisapia: “Io credo sia necessario partire prima da una strategia pubblica. Serve una forte presenza dell’indirizzo pubblico rispetto agli operatori privati, perché solo così si può garantire un servizio alla città e ai cittadini. Bisogna riuscire a costruire azioni completamente indipendenti dall’iniziativa privata”.

Ancora più netta un’altra docente del Politecnico, Elena Granata: “Non esiste al mondo una città che lascia così tanto mano libera al mercato, pensando poi che si possa mettere una pezza con un po’ di housing sociale e qualche studentato”.

È il Modello Milano ad apparire irrevocabilmente in declino: “Il suo vantaggio competitivo si regge tutto sulla rendita e sul suolo: le implicazioni sul costo della vita e della casa sono inevitabili. È impossibile mitigare i prezzi se il motore urbano gira solo a vantaggio dei costruttori che qui hanno sempre trovato condizioni ottimali. Il cambiamento richiede una torsione coraggiosa della politica e della società civile. È necessario capire che la città della rendita fa male anche a chi vuole contribuire al suo sviluppo. Una città con meno studenti, e che non potrà dare casa agli infermieri dei nostri ospedali o agli insegnanti delle scuole, è una città nella quale chi vuole fare un investimento non verrà più. Persino gli stessi costruttori, una volta consumate le aree strategiche, andranno altrove. La città è un bene che si dissipa”.

Granata demolisce in quindici parole uno dei miti milanesi, quello della “rigenerazione urbana”: “In questi anni non si è fatta rigenerazione urbana, ma densificazione a vantaggio zero per i cittadini”. E in venticinque parole fa crollare il bluff ecologico del sindaco “verde”: “Il verde non è l’insalata messa a contorno di un pranzo a base di grattacieli, il verde è il pranzo da preparare oggi. Avere spazi verdi vivibili e gratuiti per i cittadini non è un vezzo, ma un asset economico”.

Ma non ci sono i soldi, come ripetono fino allo sfinimento gli amministratori? “Non è vero. Se invece di spendere soldi per realizzare piazze inabitabili e costosissime come piazza San Babila, largo Augusto o Cairoli, si facessero scelte diverse, i fondi ci sarebbero. Rendere la città più vivibile è un atto d’amore verso i propri abitanti, per non lasciarli andare altrove”.

Di fronte a questo risveglio delle coscienze, anche la politica deve prendere posizione. Nei Verdi milanesi, finora lo ha fatto con coraggio soltanto il consigliere comunale Carlo Monguzzi. Qualche segno di riflessione lo hanno mostrato i consiglieri Daniele Nahum e Alessandro Giungi.

E il Pd? Aspettiamo che batta un colpo. A Milano, dove ha unito i suoi destini a quelli del sindaco Sala. E a Roma, dove Elly Schlein dovrà decidere come schierare il suo partito nella battaglia di settembre sulla legge “salva-Milano”: dalla parte dei costruttori o da quella dei cittadini?

zzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici con il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, già impegnati un una quindicina d’inchieste.

Questa pronuncia del Tar è importante perché smentisce seccamente quanto fin qui sostenuto dagli uffici comunali, dai costruttori e da professionisti come Ada Lucia De Cesaris (oggi avvocato, ieri vicesindaco di Milano) e cioè che la giustizia amministrativa avesse nelle questioni urbanistiche una linea opposta a quella della giustizia penale: niente affatto, scrivono i giudici del Tar, sottolineando che “nonostante l’ampia formulazione” di ristrutturazione prevista dal decreto legge del 2020, “si fuoriesce dall’ambito della ristrutturazione edilizia e si rientra in quello della nuova costruzione quando fra il precedente edificio e quello da realizzare al suo posto non vi sia alcuna continuità, producendo il nuovo intervento un rinnovo del carico urbanistico che non presenta più alcuna correlazione con l’edificazione precedente”.

Questo, in linea con la Cassazione penale (10 gennaio 2023), il Consiglio di Stato (22 giugno 2021), il Tar Lombardia (18 maggio 2020) e secondo un consolidato indirizzo della giustizia amministrativa. Illegittimo anche il superamento delle altezze previsto dal progetto di via Fauchè, scrive il Tar: il “Piano delle Regole del Comune di Milano stabilisce che, ove l’edificazione avvenga – come nel caso di specie – in tutto o in parte all’interno di cortili, la stessa debba essere realizzata con altezza inferiore o pari a quella dell’edificio preesistente”.

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Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2024
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