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Mafia e massoneria, Cordova aveva ragione

Mafia e massoneria, Cordova aveva ragione

Se n’è andato il 9 agosto. “Dimenticato da tutti”, commenta Piera Amendola, che fu archivista alla Camera e indimenticata responsabile dell’archivio della  Commissione P2 presieduta da Tina Anselmi. “Agostino Cordova è stato, da anni, abbandonato da tutti. Che io sappia, solo Enzo Macrì, Nicola Gratteri ed Enzo Ciconte hanno  continuato a cercarlo. Negli ultimi tempi aveva anche perso la memoria. L’ultima volta che ci siamo sentiti mi ha detto che si sentiva sereno pensando che io ricordavo, che avevo buona memoria: così avrei continuato a ricordare anche per lui”.

Molti giornali lo hanno ricordato dopo la morte solo per dire che le sue inchieste sulla massoneria erano finite in un nulla di fatto. “Quanta  disinformazione”, commenta Amendola. “La storia è ben altra, e va raccontata tutta, fino all’archiviazione della sua inchiesta da parte della  magistrata di Roma Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa. Lo sa? Ancora oggi non sappiamo che fine ha fatto l’Archivio Cordova presso la  Procura di Roma. Eppure Cordova è stato il primo a indagare sui rapporti tra ’ndrangheta e massoneria. Dopo di lui, altri magistrati hanno affrontato l’argomento: basta leggere le recenti sentenze Gotha e ’Ndrangheta stragista per comprendere quanto il lavoro di Cordova sia stato fondamentale. Oggi possiamo dirlo: Cordova aveva ragione”.

La sua inchiesta prese avvio nel 1992, a Palmi, dove Cordova era procuratore della Repubblica. Proseguì fino al 4 giugno 1994, quando fu  trasmessa a Roma per competenza territoriale, con un elenco di 61 indagati a cui era contestata l’associazione a delinquere e l’associazione segreta. Un anno prima, nel luglio 1993, Cordova era stato nominato procuratore a Napoli. In poco più di un anno di lavoro, aveva raccolto una mole immensa di materiale, oltre 800 faldoni, aveva disposto innumerevoli sequestri presso obbedienze e logge massoniche, studi professionali, abitazioni private.

Aveva raccolto le testimonianze – scrive Piera Amendola nel suo  libro Padri e padrini delle logge invisibili – “di una nuova categoria di pentiti, quelli delle logge massoniche, il cui contributo, soprattutto nella prima fase  investigativa, si rivelò decisivo. Furono loro a svelare  l’esistenza di logge parallele a quelle ufficiali, come si potevano occultare i nomi eccellenti nei piedilista regolarmente depositati, quali fossero i tanti traffici illeciti che si combinavano nelle logge, le regole che governavano la  giustizia massonica, ritenuta prioritaria rispetto alle leggi della Repubblica”. Soprattutto in Calabria, la regione con il più alto rapporto tra popolazione e  numero di affiliati a logge massoniche, regolari e irregolari.

A Palmi mancavano i locali per raccogliere la documentazione, i magistrati, il personale d’ufficio, le fotocopiatrici, la carta. “Nessun aiuto arrivò dal ministro della Giustizia Claudio Martelli”, ricorda Amendola, “non fu autorizzata l’applicazione a Palmi dei magistrati Libero Mancuso, Gherardo Colombo e Felice Casson, che avevano chiesto di poter dare una mano ai colleghi  calabresi”.

Nel decreto che dispone l’archiviazione dell’inchiesta, il 3 luglio 2000, Iannini si lamenta della difficoltà a consultare l’immenso materiale investigativo raccolto. “Ma alla fine, qualcuno aveva letto il fascicolo  processuale?”, si chiede Amendola. Eppure la gran parte della documentazione era stata informatizzata e dunque sarebbe stata possibile la  consultazione al computer.

L’archiviazione fu aiutata anche da quella che viene chiamata “legge Anselmi”, dal nome della presidente della Commissione parlamentare che indagò sulla P2: “Impropriamente”, protesta Piera Amendola. Varata dopo la scoperta della loggia P2, “quella legge è una lancia spezzata nelle mani dei magistrati”, “un compromesso finalizzato a colpire la loggia di Licio Gelli, ma non la massoneria coperta, alla quale è anzi garantita per legge la sopravvivenza”.

Prevede infatti che sia dimostrata non solo la segretezza di una loggia, ma anche il perseguimento di fini illeciti. “Accorpando i due diversi elementi”, spiega il Rapporto antimafia del 2017 di Rosy Bindi, “ha di fatto aumentato il coefficiente di segretezza delle logge ufficiali che hanno potuto mantenere, in concreto, le barriere invalicabili alla conoscenza esterna e interna”. Sia Anselmi sia Cordova invocarono in più occasioni la necessità di modificare la legge, tornando a una corretta interpretazione della   Costituzione.

Dopo l’archiviazione a Roma, la storia sembrava chiusa. Invece, sedici anni  dopo, si riapre. Arriva alla Procura della capitale una richiesta di consultazione e studio delle carte dell’Archivio Cordova. Subito dopo – ma  forse è solo un caso – il Grande Oriente d’Italia (la più numerosa comunione  massonica italiana) chiede la restituzione dei documenti a suo tempo  sequestrati.

Concessa il 3 ottobre 2016 da un gip che autorizza l’avvocato del Goi “a cercare i documenti e a portarseli a casa, non sulla base dei verbali di sequestro, ma della sua personale ricognizione. Inutile aggiungere che questi documenti non sono stati fotocopiati prima della riconsegna”.

Nel 2017, Rosy Bindi, allora presidente della Commissione parlamentare  antimafia, al lavoro sui rapporti tra mafie e massonerie, chiede al Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone di poter consultare l’Archivio Cordova. Troppo tardi: è già stato restituito al Goi.

Quell’anno, alla Commissione antimafia, l’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo afferma che, secondo Ettore Loizzo, un  professionista di Cosenza all’epoca Gran Maestro Aggiunto, “in Calabria su 32 logge, 28 sono controllate dalla ’ndrangheta”.

E lo storico Enzo Ciconte, a  proposito degli 800 faldoni, aggiunge: “Se si riuscisse a mettere mano su quei faldoni, a leggerli e a mettere in piedi un gruppo di lavoro che studiasse oggi quelle carte, probabilmente riusciremmo a capire carriere, cointeressenze e fatti che sono accaduti negli anni successivi e che probabilmente ci sono sfuggiti, perché non li abbiamo capiti e abbiamo attribuito loro una valenza completamente diversa”.

Resta aperto un mistero che oggi la Procura di Roma potrebbe risolvere: parte della versione cartacea dell’Archivio Cordova è stata restituita al Goi, ma non si hanno notizie di altre richieste di restituzione avanzate da altre obbedienze massoniche. Dove si trovano tutte queste carte? E poi: che fine ha fatto la versione elettronica dell’Archivio, che sarebbe ancor oggi preziosa per la Commissione antimafia, per i magistrati, per gli studiosi?

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Il Fatto quotidiano, 17 agosto 2024
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