Giorgia e quei conti non fatti con il fascismo (e con la strategia della tensione)
Non è il fascismo la cifra del governo Meloni. E non è il regime fascista ciò che l’Italia rischia nei prossimi anni. Detto questo, è però utile capire se Giorgia Meloni abbia fatto davvero i conti con il fascismo e quale sia il livello di cultura democratica e costituzionale dimostrato con il suo discorso alla Camera.
Chi vuole vedere netti segnali di rottura dalla tradizione fascista valorizza l’affermazione: “Ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana, una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre”. Ma la condanna delle leggi razziali è davvero il minimo sindacale per chi si appresta a guidare il governo della Repubblica. E assolutamente insufficiente a condannare, o almeno a superare, il fascismo, che è molto di più delle leggi razziali.
La condanna del fascismo nel discorso di Giorgia Meloni non c’è: c’è l’accettazione della democrazia parlamentare che l’ha portata a Palazzo Chigi. E c’è l’affermazione di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici; per nessun regime, fascismo compreso”. L’affermazione nasconde una menzogna: davvero non provava alcuna simpatia per il fascismo la giovane Giorgia che guidava il Fronte della gioventù di Colle Oppio a Roma? O quella che ha tenuto nel simbolo di Fratelli d’Italia – facendo molti passi indietro rispetto alla Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini – la fiamma tricolore che si sprigiona dalla tomba di Mussolini?
Ma restiamo al presente: mai Meloni ha detto una parola chiara sul fascismo. Dice di non aver simpatia, semmai, per i “regimi antidemocratici”, “fascismo compreso”. Si dichiara dunque “post-fascista”, nel migliore dei casi “a-fascista”, ma non certo “anti-fascista”. La Costituzione repubblicana, però, è anti-fascista, è nata dalla Resistenza, dalla guerra contro gli occupanti nazisti e i loro alleati fascisti.
La Carta non è una dichiarazione generica e buonista contro ogni totalitarismo, ma è scritta con il sangue di chi è stato ucciso dall’unico totalitarismo che ha soggiogato l’Italia, l’ha trascinata in guerra, l’ha consegnata ai nazisti. La fedeltà alla Costituzione, su cui Meloni ha giurato, esige ben altro che una comoda dichiarazione di a-fascismo di una leader che fa eleggere presidente del Senato della Repubblica un politico che tiene i busti di Mussolini in casa.
Storie vecchie, si sente ripetere. E allora veniamo a storie più nuove, a ferite ancora non rimarginate. Dopo la sconfitta del nazi-fascismo e la nascita della Repubblica, in Italia è stata combattuta una “guerra non ortodossa” che, nel clima della guerra fredda e della contrapposizione tra Occidente e blocco sovietico, ha fatto centinaia di morti e feriti e ha inflitto profonde ferite alla democrazia.
È stata chiamata “strategia della tensione”, è stata un’incredibile sequenza di stragi impunite, di golpe minacciati e tentati, di omicidi politici, di logge segrete, di alleanze inconfessabili con le organizzazioni criminali. Il personale politico di questa guerra segreta apparteneva proprio al “mondo” da cui proviene Meloni, che oggi crede di zittire la Storia riducendola ai “ragazzi innocenti che venivano uccisi a colpi di chiave inglese”.
Il Msi, unico partito della Prima Repubblica che ancor oggi sopravvive nella fiamma di Fratelli d’Italia, è stato la casa (rissosa, certo, piena di divorzi, fughe e riconciliazioni) di tanti militanti neri, ma soprattutto dei registi italiani della strategia della tensione, ideologi, generali, agenti e direttori dei servizi segreti, da Pino Rauti a Guido Giannettini, da Giovanni De Lorenzo a Vito Miceli, da Giorgio Pisanò a Franco Servello, da Mario Tedeschi a Gino Birindelli. Fanno tutti parte della “comunità politica” cui Meloni dice di appartenere. Non è il passato della Storia del Novecento. È il presente della Repubblica che ancora non ha trovato né giustizia, né verità.