di Gianni Barbacetto e Laura Margottini /
Se la parte “politica” del governo Draghi è stata plasmata con il manuale Cencelli che neanche nella Prima Repubblica, la parte “tecnica” sembra distillata con l’alambicco della restaurazione dei poteri e delle lobby, alta burocrazia dello Stato, magnifiche baronie universitarie, campioni e campioncini confindustriali. È curioso vedere come alcune entità (dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova allo Human Technopole di Milano) abbiano nei loro organigrammi un’alta densità di nomi ora finiti nel mozartiano Catalogo del governo di Alto Profilo. Ben tre ministri e un capo di gabinetto del governo Draghi provengono da un unico centro di ricerca, quello più finanziato d’Italia, con 150 milioni l’anno, assegnati non con procedure competitive, ma per legge: Human Technopole (Ht).
I tre ministri sono Roberto Cingolani (Transizione ecologica), Maria Cristina Messa (Università e ricerca), Daniele Franco (Economia), a cui si aggiunge Marcella Panucci (capo di gabinetto del ministro Renato Brunetta alla Funzione pubblica). Cingolani scrisse il masterplan di Human Technopole, quando era ancora direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova. Franco, neoministro ed ex direttore della Banca d’Italia, e Panucci, ex direttore generale di Confindustria, siedono nel comitato di sorveglianza di Ht. Messa, ex rettore dell’Università Milano-Bicocca, è stata nell’organismo che ha preceduto e preparato l’attuale governance.
Presidente del Tecnopolo è Marco Simoni, professore di Politica economica europea alla Luiss di Roma e dal 2014 al 2018 consigliere della presidenza del Consiglio – prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni. Curiosa, questa densità ministeriale di Ht. Non si può sostenere che Human Technopole sia la fucina della nuova Nomenklatura dei Migliori, ma la concentrazione di tanti Eccellenti del governo Draghi si può spiegare raccontando come nascono e che cosa sono Iit e Ht.
L’Istituto italiano di tecnologia, come poi Human Technopole, è un centro di ricerca nato sull’onda delle idee di economisti bocconiani come Francesco Giavazzi e Alberto Alesina e nutriti dal mondo confindustriale: il pensiero che li sosteneva era che l’università e la ricerca pubbliche sono il regno delle baronie e della corruzione e per questo non meritano di essere finanziate con soldi pubblici, né sono capaci di attrarre i fondi privati dell’industria, non sapendo fare da traino all’innovazione industriale del Paese. Lo scriveva l’economista Luigi Spaventa: “Prendo nota del leit motiv di Alesina e Giavazzi: l’università italiana è irredimibile e deve essere abbandonata al suo destino di squallore; qualsiasi intervento all’interno di essa sarebbe un vano spreco”.
Meglio dunque mettere i soldi in centri di ricerca gestiti direttamente dal ministero del Tesoro (come Iit e Ht) e non da quello dell’Università, superfinanziarli (100 milioni l’anno per Iit, 150 per Ht), elevandoli sopra la ressa dei poveri, ricercatori e accademici pubblici che competono per le briciole dei pochi fondi per la ricerca. I soldi per Iit erano pari ai finanziamenti per l’intera ricerca scientifica italiana con i progetti di rilevanza nazionale (Prin).
Questo metodo fu lanciato nel 2003 dal ministro Giulio Tremonti e da Vittorio Grilli, economista bocconiano che dal 2002 al 2005 è stato Ragioniere generale dello Stato, in seguito dirigente del Tesoro e per un periodo presidente di Iit. Nel board dell’istituto siedono e si sono succeduti nel tempo capitani d’industria e della finanza. Iit doveva attrarre i fondi di aziende e multinazionali e guidare la ricerca industriale. Ne attrasse poche briciole, anche perché aveva già tanti soldi dallo Stato da non sapere come spenderli: aveva accumulato, come rivelò il Fatto, un tesoretto di 500 milioni depositati su conti bancari e su conti infruttiferi della Banca d’Italia. Segno di incapacità, secondo il mondo della ricerca e la senatrice a vita Elena Cattaneo.
È chiaro che, con così tanti soldi, Iit nel tempo ha prodotto anche ricerca di qualità. Ma non ha agganciato l’industria né ha fatto da traino dell’innovazione, come prevedeva la sua mission. Ha continuato a incassare (e accantonare) superfinanziamenti, mentre negli stessi anni, specialmente dopo la riforma voluta da Mariastella Gelmini (altro neoministro di Draghi), l’università e la ricerca pubbliche hanno subito i tagli più pesanti della storia della Repubblica. E le aziende italiane? Invece di investire in ricerca, hanno continuato ad aspettare gratis e senza rischi la ricerca pagata dallo Stato.
Human Technopole è un po’ l’upgrade di Iit, nasce come continuazione del suo metodo a Milano. Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, nel 2016 aveva da risolvere un gran problema: che cosa fare delle aree periferiche, incastrate tra due autostrade, un carcere e un camposanto, dove era stato impiantato Expo Milano 2015. Erano (per la prima volta nella storia delle Esposizioni universali) aree private, comprate a caro prezzo con soldi pubblici. Alla fin della fiera, due aste erano andate deserte, nessuno le voleva ricomprare. Si profilava un buco milionario, da aggiungere a quello dell’esposizione (2 miliardi di uscite, 700 milioni di entrate).
Renzi arriva allora a Milano con un’idea che definisce “petalosa”: costituire sull’area Expo un supercentro di ricerca su genoma e big data, con una dote di 1 miliardo e mezzo di finanziamenti pubblici in dieci anni, in grado di attirare nell’area le aziende private e trasformare così una landa desolata in un meraviglioso distretto della ricerca. È Human Technopole. Funzionerà? Attirerà davvero le aziende promesse da Renzi (Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Celgene, Ibm…)? Chi vivrà vedrà. Per ora si vede più che altro una grande operazione immobiliare da 2 miliardi di euro, che hanno chiamato “Mind” (Milano Innovation District), con 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, residenze, spazi commerciali, hotel, guidata dall’operatore australiano LendLease.
Il progetto-civetta, il superpolo della ricerca che doveva replicare a Milano il modello Iit, cioè Human Technopole, fu subito rifiutato dal mondo della ricerca e delle università milanesi, perché Renzi lo aveva affidato tutto all’istituto genovese di Cingolani. Dovette allora cambiare la governance, che fu resa più ecumenica, con un Consiglio di sorveglianza con dentro uomini e donne del Tesoro, di Bankitalia, del ministero dell’Università e della ricerca, di Confindustria, dell’Istituto superiore di sanità. Il posto di direttore scientifico, tolto a Cingolani, è stato assegnato con gara internazionale a Iain Mattaj. Anche il tesoretto milionario che Renzi voleva dare tutto a Ht è stato tagliato: la senatrice Cattaneo è riuscita a farne assegnare il 55 per cento alla ricerca, a progetti scelti con procedure competitive. Finora Ht non ha prodotto gran ricerca, ma si è consolidato come un incubatore di potere, da cui è normale pescare uomini e donne per il governo dei Migliori.