Non c’è solo la mega-tangente da oltre 1 miliardo di dollari che Eni, secondo la Procura di Milano, avrebbe pagato in Nigeria: su questo il processo milanese sta per giungere alle ultime battute. I pm stanno per concludere anche l’inchiesta sugli affari della compagnia petrolifera in Congo. La vicenda – ricapitolata ora in un rapporto, Il caso Congo, della ong Re:common – inizia nel 2013, quando il dittatore locale, Denis Sassou Nguesso, vara una direttiva per far entrare le società del Congo-Brazzaville nel mercato petrolifero.
Al rinnovo delle concessioni, Eni e Total sono obbligate a cedere quote a compagnie locali. Non alla società pubblica, Snpc, che pure esisteva, ma ad aziende private. Guarda caso, ne esisteva una sola: Aogc (Africa Oil and Gas Corporation), fondata nel 2001 da Denis Gokana.
È una società-paravento di Nguesso, il cui gruppo controlla tutti gli affari del Paese africano. Gokana, per anni alla guida della compagnia statale Snpc, era poi diventato consigliere speciale di Nguesso per le questioni petrolifere. E due soci di Aogc sono pubblici ufficiali in Congo: Lydie Pongault è consigliere di Nguesso per la cultura; Dieudonné Bantsimba è capo di gabinetto del ministero del Territorio.
I rinnovi delle concessioni
Nel 2013, dunque, a Eni sono rinnovate quattro licenze estrattive nei campi petroliferi Marine VI e Marine VII (valore: 400 milioni di dollari). Contestualmente, la compagnia italiana coinvolge una società locale, come imposto dalle nuove regole, cedendo quote comprese tra l’8 e il 10 per cento (valore: 59 milioni) alla Aogc. A sua volta, Aogc cede il 23 per cento di un altro giacimento, Marine XI (valore: 23 milioni), a un’impresa sconosciuta: Wnr, World Natural Resources. Tenete a mente questo nome: sarà importante in questa storia.
Due anni dopo, nel 2015, lo schema si ripete: Eni ottiene, insieme a Total, il rinnovo del permesso di esplorazione Secteur Sud, ma diluendo le sue quote azionarie, cedute ad aziende indicate dal governo congolese, tra cui l’immancabile Aogc.
Il 6 luglio 2017, scoppia il caso internazionale: la Procura di Milano notifica un avviso di garanzia per corruzione internazionale in Congo a Eni e a un suo manager di vertice, Roberto Casula, Chief Development Operations & Technology Officer, in pratica il numero due operativo dell’amministratore delegato Claudio Descalzi.
Qual è l’ipotesi d’accusa? Che Eni, per ottenere i rinnovi dei permessi petroliferi, abbia pagato mazzette (sotto forma di quote azionarie) a pubblici ufficiali congolesi legati a Nguesso, nascosti dietro Aogc. Come abbiamo visto, almeno due dei soci dell’azienda, Lydie Pongault e Dieudonné Bantsimba, sono pubblici ufficiali in Congo. Ma su Aogc aleggia, secondo la Procura di Milano, addirittura l’ombra del presidente Nguesso.
Finito il tempo delle buste o delle valigette piene di banconote, e anche dei versamenti su conti esteri, le tangenti postmoderne diventano quote di società: quelle cedute da Eni ai congolesi. Non solo: secondo i pm milanesi Paolo Storari e Sergio Spadaro, una parte delle mazzette pagate da Eni è tornata nelle tasche di alcuni suoi manager: sempre in quote societarie.
Le tangenti di ritorno
Ricordate la Wnr? È il tramite per la “retrocessione di una parte della tangente”, scrivono Storari e Spadaro. Infatti la società è riconducibile ad Andrea Pulcini (al 49,9%), Alexander Haly (al 25%) e Maria Paduano (al 25%). Tutti “soggetti collegati a Eni spa”, annotano i pm.
Pulcini è, dal 1994 al 2005, direttore generale di Agip Trading Services Uk, società londinese di Eni. Paduano è, secondo i magistrati, prestanome di Casula: firma nel marzo 2016 il preliminare d’acquisto di un attico da 200 metri quadri nel centro di Roma, valore dichiarato 1,1 milioni di euro; nel giugno del 2017 cede il preliminare a Casula, che diventa proprietario del superattico. Tre mesi dopo, Paduano viene assunta dall’Eni.
Che Wnr sia di Casula è provato, secondo i pm, anche da alcune email sequestrate dalla Procura di Milano. In una, “Marinù” Paduano scrive a un avvocato: “Non fare menzione del fatto che sono un prestanome”. L’avvocato conferma: “Marinù mi disse che era solo una prestanome (…) così le aveva chiesto Casula”. La donna è ancora dipendente Eni, mentre Casula si è autosospeso dall’incarico dopo le perquisizioni subite nella primavera del 2018.
Conflitto a casa Descalzi
E Haly? È il personaggio che ci fa entrare in casa Descalzi. Uomo d’affari britannico con base a Montecarlo, Haly è fino al 2014 socio (al 33%) della moglie di Claudio Descalzi, Marie Madeleine Ingoba detta Madò, che detiene il restate 66% della società lussemburghese Cardon Investment, che controlla il gruppo olandese Petroserve Holding, di cui fa parte Petro Services Congo, oltre ad altre società gemelle che operano in Gabon, Ghana, Mozambico. Negli ultimi anni hanno incassato da Eni almeno 300 milioni di dollari, per servizi logistici e affitto di navi.
Un insuperabile conflitto d’interessi, che Madò ha tentato di sciogliere vendendo (l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Descalzi fosse designato amministratore delegato di Eni) la sua quota di Cardon a Haly; e Descalzi dicendo di non sapere nulla degli affari della moglie. I due sono stati comunque iscritti dalla Procura di Milano nel registro degli indagati, per omessa comunicazione di conflitto d’interessi. E la signora Ingoba anche per corruzione internazionale.
Natali in Congo, studi a Parigi, affari in giro per il mondo, Madò fa parte del gruppo di potere stretto attorno al presidente congolese Sassou Nguesso. È socia di sua figlia, Julien Sassou Nguesso, nella African Beer Investment Ltd, registrata all’isola di Mauritius.
Il marito Descalzi, già imputato di corruzione internazionale nel processo Eni-Nigeria e nell’aprile 2020 riconfermato dal governo Conte alla guida della compagnia, ripete come un mantra di non sapere nulla degli affari della moglie. Ma che cosa è peggio, per un manager internazionale: nutrire un conflitto d’interessi in casa, o non accorgersi di quello che gli capita sotto il naso?