L’ospedale glam alla Fiera, simbolo della disfatta lombarda
L’ospedale alla Fiera di Milano doveva essere il simbolo dell’intervento virtuoso della Regione Lombardia contro l’epidemia. Si sta trasformando nel suo opposto: il simbolo della disfatta lombarda. Intendiamoci, ci sono colpe ben più gravi imputabili a chi ha le responsabilità politiche e amministrative di gestire il contrasto a Covid-19, e cioè il presidente Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera e il suo direttore generale Luigi Cajazzo.
Sono colpe in gran parte indicate non da astiosi avversari politici, ma dagli ordini dei medici lombardi: “Assenza di strategie nella gestione del territorio”, “sanità pubblica e medicina territoriale trascurate e depotenziate”, “non-governo del territorio con saturazione dei posti letto ospedalieri”, “tamponi solo ai ricoverati e diagnosi di morte solo ai deceduti in ospedale”, “incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio”, tipo Alzano Lombardo-Nembro, “mancata fornitura di protezioni individuali ai medici e al personale sanitario che ha determinato la morte o la malattia di molti colleghi”, “gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani che ha prodotto diffusione contagio e triste bilancio di vite umane”, 600 morti nella sola provincia di Bergamo, 2 mila in tutta la regione.
Detto questo, per cercare di far dimenticare la terribile, epocale disfatta di quella che veniva narrata come l’“eccellenza sanitaria lombarda”, il duo Fontana-Gallera – persa ignominiosamente, a monte, la battaglia di Caporetto – ha puntato tutto sull’intervento, a valle, dell’ospedale Covid della Fiera. La linea del Piave. Non abbiamo saputo fermare i contagi alla partenza, ma facciamo un super-hub della terapia intensiva per ospitare e salvare i contagiati.
Operazione anche (non solo, ma anche) d’immagine, alla milanese, con gran lavorio delle pierre e degli esperti di comunicazione, annunci mirabolanti e rotonde promesse, numeri sparati al rialzo, San Bertolaso come nume tutelare, grandi firme come finanziatori, Cracco in cucina sorridente come nello spot della Scavolini, inaugurazione tecno-glam. Ma chi si loda s’imbroda, o – come dicono a Milano – “Fa no il bauscia!”. Fontana aveva annunciato un super-ospedale da 600 posti, poi diventano 400, poi 200, infine 157. Oggi i posti pronti sono 53, i pazienti sono dieci (10). Spesa 21 milioni di euro.
Era il 12 marzo quando Gallera aveva lanciato la sfida: “I cinesi a Wuhan ci hanno messo dieci giorni a costruire un ospedale? I lombardi ne impiegheranno sei”. Sarà inaugurato il 31 marzo (19 giorni dopo) e i primi tre (3) pazienti arrivano il 6 aprile (25 giorni dopo). È finito comunque fuori tempo: in questi giorni le terapie intensive si svuotano (per fortuna, e speriamo non tornino ad affollarsi).
Ma da subito molti specialisti avevano sconsigliato l’operazione. Qualcuno racconta che il professor Alberto Zangrillo se ne sia andato da una riunione in Regione sbattendo la porta. E Giuseppe Bruschi, dirigente medico del Niguarda, spiega: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, perché il Covid provoca complicazioni su cui è necessario intervenire d’urgenza che non sono solo polmonari, ma cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche…
Intanto, in silenzio, senza glamour, senza Cracco e senza inaugurazioni, gli Alpini hanno fatto un padiglione a Bergamo con 140 letti e tutti gli ospedali hanno incrementato i posti di terapia intensiva. Il trio Fontana-Gallera-Cajazzo ha fatto invece l’ospedale glam della Fiera, che sarà studiato come case history della disfatta nella nuova Milano da bere.