La Banca d’Italia di oggi non è quella di Baffi e Sarcinelli
Esattamente 40 anni fa. Era il 24 marzo 1979 quando scattò il più violento degli attacchi mai visti all’indipendenza della Banca d’Italia. Mario Sarcinelli, allora vicedirettore generale e responsabile della Vigilanza, fu arrestato e portato in carcere. Il governatore, Paolo Baffi, evitò la cella solo per la sua età avanzata. C’è chi ricorda questa aggressione ai vertici di Bankitalia per paragonarla a ciò che succede oggi, con il governo Cinquestelle-Lega che non vuole riconfermare l’attuale vicedirettore Luigi Federico Signorini.
Quarant’anni fa a muoversi fu la Procura di Roma, su cui aleggiava il potente influsso di Giulio Andreotti e del suo gruppo di potere. Il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi incriminano Baffi e Sarcinelli per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento: per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria un rapporto ispettivo del giugno 1978 sull’attività del Credito industriale sardo, banca che aveva largamente finanziato il gruppo chimico Sir dell’imprenditore Angelo Rovelli.
Le accuse ai due massimi dirigenti di Bankitalia erano pretestuose: non avevano alcun obbligo di inviare ai giudici quel documento e furono completamente prosciolti nel 1981, quando fu accertata l’assoluta infondatezza dell’incriminazione. Il blitz della Procura romana aveva ben altri obiettivi, come documenta anche l’ultimo libro di Giuliano Turone, Italia occulta (Chiarelettere): punire la Banca d’Italia per il suo atteggiamento rigoroso nei confronti delle banche e delle operazioni condotte in quegli anni dagli uomini protetti da Giulio Andreotti e dalla sua cerchia.
Il 5 settembre 1978, Sarcinelli era stato convocato d’urgenza dal braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Era appena tornato da New York, dove aveva incontrato riservatamente un Michele Sindona già ricercato per bancarotta fraudolenta. Sindona era latitante, sottoposto da tempo a una complessa indagine della Procura di Milano, eppure erano andati a trattare con lui, negli Stati Uniti, anche lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro del Lavoro Gaetano Stammati. Quest’ultimo aveva in comune con Sindona l’appartenenza alla loggia massonica segreta P2 guidata dal Maestro Venerabile Licio Gelli. Di ritorno dall’incontro newyorkese, Evangelisti sottopone a Sarcinelli un piano di salvataggio per le banche sindoniane, di fatto a spese dell’erario: Sarcinelli ascolta, capisce e giudica il piano “improponibile”.
Erano tempi complicati. Cinque mesi prima, il 17 aprile 1978, Bankitalia aveva mandato i suoi ispettori presso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (anch’egli iscritto alla P2), in cui erano state rilevate numerose irregolarità, subito segnalate al giudice di Milano Emilio Alessandrini.
Sotto osservazione della Vigilanza, già dal 1977, era anche l’Italcasse, l’istituto di credito delle Casse di risparmio italiane, che poi “salta” nel novembre 1979, quando diciannove società del gruppo Caltagirone sono dichiarate fallite e vengono emessi mandati di cattura per Gaetano Caltagirone e i suoi fratelli Camillo e Francesco.
Sindona, Calvi, Caltagirone: tre campioni del sistema andreottiano, coacervo armonioso di politica e affari consustanziale alla massonica loggia di Gelli. Tre personaggi del teatro italiano del potere assai disturbati dal rigore di una Banca d’Italia che vigila e controlla, valuta e analizza, segnala alla magistratura (quella milanese, non il romano “porto delle nebbie” degli anni Settanta e Ottanta) e blocca i progetti “improponibili” (come quelli che puntano a salvare il bancarottiere Sindona).
Per piegare quella Banca d’Italia scatta la magistratura romana, che fa eseguire due arresti senza alcuna base giuridica. È poi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti in persona che – andreottianamente – s’incarica di sbrogliare la matassa che aveva fatto ingarbugliare: scrive di suo pugno una assai anomala lettera al giudice Alibrandi, proponendogli la revoca della sospensione dall’ufficio che Alibrandi aveva disposto per Sarcinelli, garantendo però che “al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l’indagine giudiziaria in corso”. Insomma – conclude Turone – è “personalmente Andreotti a garantire il rispetto della pesante e ricattatoria condizione imposta alla banca centrale: mai più Sarcinelli al settore della Vigilanza”.
Il 5 maggio 1979 ottiene la libertà provvisoria. Baffi si dimette da governatore il 16 agosto. Il commissario liquidatore delle banche di Sindona, Giorgio Ambrosoli, era stato ucciso un mese prima, la notte dell’11 luglio 1979, dal sicario italoamericano Joseph Aricò pagato dal bancarottiere. Il 29 gennaio 1979 era toccato ad Alessandrini, ammazzato da un commando di Prima Linea. Nel 1982 fallisce il Banco Ambrosiano. Nello stesso anno viene sciolta la P2, dopo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi conclude che la loggia è una “organizzazione criminale” ed “eversiva”.
Difficile paragonare questa vicenda che puzza di massoneria e polvere da sparo con quanto accade oggi. Non solo perché un arresto ingiustificato è imparagonabile a una eventuale mancata riconferma, ma soprattutto perché la Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli fu duramente “punita” perché svolgeva bene il suo compito d’istituto, mentre la Bankitalia di Ignazio Visco e Signorini è sotto accusa, al contrario, per “non aver visto né sentito” e per aver gestito in modo almeno inadeguato l’ultima crisi delle banche italiane, da Montepaschi alla Popolare di Vicenza.