Quando cadono gli dèi dell’antimafia
di Gianni Barbacetto e Giuseppe Pipitone /
Cadono, gli dei dell’antimafia. Ora traballa anche la reputazione di Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio Calabria. Per colpa dei messaggi scambiati con il genero del boss Pasquale Libri, che poi al telefono riferiva alla moglie, Serafina Libri: “Mi ha chiamato Falcomatà e mi ha detto se voglio la ‘Luna ribelle’”. E ancora: “Mi ha detto se voglio il bar del Museo”. Due locali cool sull’incantato lungomare di Reggio, che sarebbero da assegnare non via sms, ma con asta pubblica. Falcomatà smentisce tutto, non è indagato, e solo gli esiti dell’inchiesta ci diranno chi ha ragione.
Ma intanto cadono, gli dei dell’antimafia, in Calabria, in Sicilia, in Campania. A Palermo, da anni predicava la necessità di combattere il pizzo imposto da Cosa nostra ai negozianti, non senza rumorose polemiche. Poi, il 2 marzo 2015, Roberto Helg, da quasi dieci anni presidente della Camera di commercio palermitana, viene arrestato in flagranza di reato, mentre intasca una tangente da 100 mila euro estorta al pasticciere Santi Palazzolo, in cambio della promessa di non lasciare il suo spazio commerciale dentro l’aeroporto di Palermo.
Fu un duro colpo, per i palermitani che consideravano Helg un paladino dell’antimafia. Qualcuno riconsiderò allora le parole pronunciate pochi mesi prima da don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera: “L’antimafia è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L’etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi”.
Il primo caso della mafia che si fa antimafia va in scena a Villabate, nei primi anni duemila: Francesco Campanella, presidente del consiglio comunale, fonda l’Osservatorio per la legalità e consegna un premio a Raoul Bova, che in tv aveva prestato la sua faccia al capitano Ultimo che aveva arrestato Totò Riina. Peccato che Campanella avesse avuto il mandato direttamente dal capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano. Solo in seguito si rimise in pari, diventando collaboratore di giustizia.
Poi è arrivato Helg. Infine è toccato ad Antonello Montante, ex presidente di Confindustria siciliana ed ex delegato nazionale alla legalità di Confindustria nazionale: arrestato nel maggio 2018, non solo era finito sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa a seguito delle accuse di alcuni pentiti (accuse che finora non hanno però trovato sufficienti riscontri), ma aveva anche creato un sistema di spionaggio che coinvolgeva anche personaggi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti.
Il caso di Silvana Saguto è clamoroso, perché riguarda una magistrata che per anni ha guidato la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Negli anni, Saguto ha costruito un sistema di gestione dei beni confiscati ai mafiosi, che affidava a suoi amici e parenti. Nel marzo 2018 il Csm la caccia dalla magistratura, senza aspettare la sentenza del processo in corso a Caltanissetta.
In Calabria è toccato al giudice Vincenzo Giglio finire agli arresti, con l’accusa di aver stretto rapporti con esponenti della cosca Lampada, ’ndrangheta calabrese ben impiantata in Lombardia. Più pittoresca la vicenda di Rosy Canale, che girava l’Italia come eroina dell’antimafia dopo aver gestito una discoteca a Reggio Calabria, averne cacciato (a suo dire) gli spacciatori e aver fondato un’associazione che riuniva (parole sue) quasi tutte le donne di San Luca, uno dei paesi calabresi a più alta densità mafiosa. Perfino sul palcoscenico portava la sua storia, con lo spettacolo “Malaluna”, musiche di un incolpevole Franco Battiato. Poi fu arrestata e condannata a 4 anni, perché i soldi raccolti dalle sue associazioni antimafia se li spendeva in vestiti griffati e borse, mobili, automobili e viaggi.
In Campania un’altra icona dell’antimafia, Silvana Fucito, è stata raccontata in tv, nella fiction “Il coraggio di Angela”. Se Rosy Canale l’eroismo se l’era costruito a tavolino, Fucito si era invece davvero opposta al racket della Camorra, e davvero il suo negozio di vernici a San Giovanni a Teduccio era stato dato alle fiamme il 19 settembre 2002. Peccato che nel 2014 sia coinvolta in un’inchiesta che ha come protagonista il marito, arrestato con l’accusa di associazione a delinquere, emissione di fatture per operazioni inesistenti e simulazione di reato.
Davide Imberbe, invece, aveva ottenuto la scorta per aver denunciato il racket che taglieggiava i suoi supermercati tra Portici e San Giorgio a Cremano. Nel 2012 finisce nel carcere di Poggioreale, accusato di calunnia aggravata nei confronti di due carabinieri e di quattro ragazzi (tre minorenni) accusati di un inesistente tentativo di estorsione. Il movimento antimafia, entusiasta, coraggioso e silenzioso, ha ormai preso atto di essere usato e infiltrato da un variopinto circo dell’antimafia, chiassoso, cinico e spregiudicato.