POLITICA

Referendum autonomia: vittoria con il trucco

Referendum autonomia: vittoria con il trucco

Il giorno dopo i brindisi e l’esultanza dei promotori, le nude cifre dei risultati impongono riflessioni più realistiche. Il “referendum per l’autonomia” ha dato qualche soddisfazione in Veneto al presidente della Regione Luca Zaia, che ha portato alle urne il 57,2 per cento degli elettori. Molte meno, in Lombardia, le soddisfazioni di Roberto Maroni, che ha convinto a votare soltanto il 38,2 per cento degli aventi diritto.

A caldo, tutti a gridare vittoria. “Sono molto soddisfatto del risultato del referendum”, aveva dichiarato subito Maroni. “È il big bang delle riforme istituzionali”, aveva addirittura proclamato Zaia. Scontato che la stragrande maggioranza di chi ha deciso di andare a votare fosse per il “sì”: in Lombardia sono il 95,29 per cento, con 3,94 per cento di “no” e 0,77 di bianche; in Veneto il 98,1 per cento, con 1,9 di “no” e 0,5 di bianche 3 nulle. Ma è l’affluenza che conta e dà ai “sì” il giusto peso e la corretta dimensione. In Lombardia, hanno votato “sì” meno di 3 milioni di cittadini sui 9 milioni con diritto di voto: non è certo il plebiscito autonomista raccontato dalla Lega. Meglio in Veneto, dove ha detto “sì” almeno la metà degli elettori, più di 2 milioni su 4. Eppure anche in quella regione la partecipazione era stata ben più ampia al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (76,7 per cento) o a quello sulla devolution del giugno 2006 (62,3 per cento).

Insomma: si fatica a riconoscere nell’appuntamento del 22 ottobre quella spinta rivoluzionaria che dice di vedere qualche leader leghista. Maroni ha potuto brindare al successo grazie al vecchio trucco di dichiarare, alla vigilia del voto, un obiettivo molto basso (aveva detto che avrebbe considerato un successo già un’affluenza del 34 per cento), così da far sembrare una vittoria anche il 38,2. In realtà c’è poco da esultare se la proposta – quasi esclusivamente leghista – ha affascinato poco più di un terzo del corpo elettorale.

Ancor meno da gioire c’è per il voto elettronico, sperimentato per la prima volta in Lombardia. Molto costoso (23 milioni solo per i tablet acquistati dalla Regione), ma soprattutto poco efficiente, lento, macchinoso e confuso: ci sono volute quasi 13 ore per arrivare ai risultati finali. Sarebbe stato più efficiente un pallottoliere. Certamente più rapido è stato il Veneto, che usava il metodo di voto tradizionale. Ma Maroni qualche risultato lo ha ottenuto. Innanzitutto un risultato giudiziario: il referendum ha di nuovo bloccato il processo in cui è imputato a Milano e reso così più lontana una eventuale condanna, che lo renderebbe incandidabile alle prossime elezioni. Il risultato politico invece lo divide con Zaia: è riuscito a rimettere in campo la Lega Nord, quella autonomista, se non secessionista, fedele alla tradizione cara a Umberto Bossi e alla Liga Veneta, che negli ultimi tempi era stata messa in ombra, se non addirittura rottamata, dalla Lega nazionale di Matteo Salvini, che si è invece incamminato verso la trasformazione dell’ex partito nordista nella brutta copia italiana del Front National di Marine Le Pen.

Torna comunque centrale sulla scena politica la questione settentrionale e l’autonomia fiscale. La promessa di tenere le tasse sul territorio regionale dove sono state pagate è stata la carota agitata in campagna elettorale dai leghisti veneti e lombardi per chiamare gli elettori al voto, pur sapendo bene che il fisco è fuori dalle materie che l’articolo 116 della Costituzione permette di assegnare alle Regioni. Ora però i due presidenti rilanciano anche la questione fiscale. E intanto la geografia del voto referendario, a volerla guardare, racconta molto della crisi, della società e dell’economia del Lombardo-Veneto. L’affluenza alle urne ha avuto il suo picco nella provincia di Vicenza (62,7 per cento), che dunque diventa anche l’epicentro della voglia d’autonomia, con incipiente, possibile protesta fiscale. Era fino a qualche anno fa “il fortino delle piccole e medie imprese” (la definizione è di Le Monde), ma poi “il fortino” è stato espugnato dalla crisi che ha attaccato le aziende e ha quasi dissolto la Banca popolare di Vicenza. Seguono, per affluenza, le province di Padova (59,7) e di Treviso (58,1), terre di capannoni e di centinaia di imprese che negli ultimi anni non hanno retto la concorrenza e hanno chiuso i battenti.

In Lombardia sembra pesare invece, più che il dato economico, quello sociale: centro contro periferia, città versus campagne. Il “sì” è forte nelle valli bergamasche (dove l’affluenza sfiora il 50 per cento), ma è debole a Milano (31,20 nell’area metropolitana, addirittura solo 26,4 in città). Così la prossima volta che Maroni magnificherà il ruolo di Milano locomotiva del Nord, dovrà anche spiegare come mai questa locomotiva non lo vuole alla sua guida.

 

 

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Il Fatto quotidiano, 24 ottobre 2017 (versione modificata)
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