Ripresa? Ma a Milano sono in arrivo 1000 licenziamenti
C’è la ripresa. Evviva! Lo dicono i politici di governo, lo ripetono i giornali amici, lo moltiplicano i trombettieri della Milano post-Expo locomotiva d’Italia, dove la ripresa dev’essere per forza più ripresa che in tutto il resto del Paese. L’agenzia di rating Moody’s alza all’1,3 per cento le stime di crescita del Pil italiano per il 2017. La Banca d’Italia le aveva già elevate all’1,4 e il Fondo monetario all’1,3. L’Istat le prevede addirittura all’1,5 per cento e ora comunica che è aumentata anche l’occupazione, con l’arrivo a quota 23 milioni di occupati. Eppure i fatti concreti contraddicono le stime: i fatti che più pesano sulla vita delle famiglie, quelli sulla disoccupazione. E proprio qui a Milano, nell’area più ricca e produttiva del Paese. Altro che crescita dell’occupazione: sono mille – dicono i sindacati – i lavoratori lombardi che nelle prossime settimane rischiano di perdere il posto di lavoro. A questi si devono aggiungere i dipendenti che saranno licenziati nelle aziende che hanno meno di 15 dipendenti e che quindi sfuggono alle rilevazioni istituzionali.
Nei primi sei mesi del 2017 ci sono state 305 crisi con richieste di licenziamenti collettivi e 56 con domanda di cassa integrazione straordinaria. Altre 50 procedure di crisi sono aperte o si stanno per aprire. Con un curioso paradosso: i sostenitori del Jobs Act dovrebbero venire a vedere che cosa succede nelle fabbriche lombarde. Le nuove norme hanno reso più difficile per le aziende in crisi accedere agli ammortizzatori sociali: la cassa integrazione straordinaria adesso la possono chiedere soltanto le ditte che hanno attivo almeno il 20 per cento della produzione. “Così è diventato più conveniente licenziare”, constatano i sindacalisti. E infatti nei mesi scorsi è diminuito il ricorso alla cassa integrazione, ma sono aumentati i licenziamenti collettivi. Non tutti i settori sono uguali: va meglio quello dell’auto, peggio quello siderurgico o dell’energia. La ripresa c’è, ripetono i politici. Ma vallo a dire alle centinaia di persone che stanno perdendo il posto di lavoro. È come spiegare al soldato ucciso che il bollettino di guerra nel giorno della sua morte diceva: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.
Esempi? La Trony (“Non ci sono paragoni”) ha chiesto di licenziare un terzo dei dipendenti a Milano, 50 su 150. Alla Candy a ottobre scade la solidarietà per 300 lavoratori, più di metà degli occupati nello stabilimento di Brugherio, già dichiarati in esubero. In crisi anche la Nokia, che ha aperto a fine luglio una procedura che riguarda un migliaio di lavoratori, tra cui 80 – quasi tutte donne – occupate nello stabilimento di Vimercate. È uno dei casi in cui il Jobs Act spingerà verso la richiesta di licenziamenti collettivi piuttosto che di cassa integrazione.
Va anche peggio alla Ericcson di Assago, alle porte di Milano: 19 persone hanno già ricevuto la lettera di licenziamento a luglio, gli altri aspettano con trepidazione ogni giorno l’arrivo del postino. Alla Ceme di Carugate perderanno il posto 97 lavoratori. I sindacati denunciano: “I conti vanno bene, ma, come molte aziende, anche questa preferisce delocalizzare la produzione o dare parte del lavoro a terzi, per diminuire i costi. La Stf di Magenta, che produce condensatori e scambiatori termici, ha avviato il concordato preventivo e chiesto un licenziamento collettivo per 50 persone: una trentina di lettere sono già arrivate, le altre sono in viaggio e dovrebbero arrivare entro la fine di ottobre. Allora, per favore, qualcuno ci spieghi come stanno insieme i dati statistici e la realtà occupazionale lombarda, i soddisfatti tweet di Matteo Renzi e i mille licenziamenti dell’autunno milanese alle porte.