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Il giorno in cui iniziò Mani pulite, 25 anni fa

Il giorno in cui iniziò Mani pulite, 25 anni fa

Quel 17 febbraio di 25 anni fa non fu affatto memorabile. Solo alle 22.16 l’Ansa battè una notizia di poche righe: “L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, una casa di riposo per anziani, è stato arrestato questa sera dai Carabinieri con l’accusa di concussione. Lo hanno reso noto gli investigatori con un comunicato diramato in serata”. I quotidiani, il giorno dopo, danno la notizia senza enfasi: è finito in manette per una tangente un amministratore socialista. Non era la prima volta che accadeva. E non era mai successo niente di straordinario. Era opinione diffusa che la politica fosse corrotta e il titolo “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti”, il settimanale Cuore l’aveva fatto un anno prima, il 30 marzo 1991. Ma chi poteva immaginare, o sperare, o temere, che cadesse un intero sistema?

L’unico commento che quel giorno filtra da Palazzo di giustizia è una battuta di uno sconosciuto magistrato della Procura, tale Antonio Di Pietro: “Chiesa l’abbiamo preso con le mani nella marmellata”. Nelle prime settimane è solo il “caso Chiesa”. Poi il “caso tangenti”. Tra aprile e maggio diventa “Tangentopoli”. E l’inchiesta trova il suo nome: “Mani pulite”. Eppure chi voleva capire aveva già capito. Nel maggio 1991, quello sconosciutissimo Di Pietro era stato ospitato da un piccolo mensile milanese, Società civile, che dal 1986 raccontava Tangentopoli prima che la definizione fosse inventata. “A me pare che più di corruzione o concussione”, scriveva Di Pietro, “debba parlarsi di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua e promette di consegnarlo. Analogamente chi riceve il denaro non si mortifica più nel pretenderlo o nel chiederlo ma semplicemente aspetta, tanto sa che prima o poi arriverà. Insomma, non c’è più né l’ammiccamento da parte del corruttore (elemento tipico del reato di corruzione) né la minaccia o induzione da parte del pubblico ufficiale (elemento caratterizzante il reato di concussione): ecco perché questo fenomeno andrebbe forse meglio classificato con la formula dazione ambientale”. (Il testo si può ora leggere nel volume L’assalto al cielo, Melampo editore).

C’era bisogno di un innesco, per far esplodere Tangentopoli. Di Pietro lo aveva cercato con pazienza, nell’inchiesta su Atm, in quella su Lombardia informatica. Non lo aveva trovato. Prima di lui ci avevano provato altri, tra cui Piercamillo Davigo. Non ci erano riusciti o erano stati fermati. Poi, il 17 febbraio 1992, era arrivato un imprenditore, Luca Magni, poco più di un ragazzo che con la sorella faceva andare avanti un’impresa di pulizia, la Ilpi di Monza, a denunciare che non ce la faceva più a far quadrare i conti. Ieri chi scrive è andato con una troupe televisiva al Pio Albergo Trivulzio, la “Baggina” dei milanesi, a rifare il percorso dello spaventatissimo Magni, che alle 17 entra con la sua valigetta nell’ufficio del presidente Chiesa in via Marostica 8 e dopo mezz’ora d’anticamera viene ricevuto dal socialista che studiava da sindaco di Milano.

“Avevo una paura pazzesca. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni di lire. Gli ho detto che gli altri 7 non li avevo”. “Quando me li porta?”, gli chiede Chiesa, senza neanche guardarlo in faccia. “La settimana prossima”, risponde concitato Magni, che saluta in fretta, esce dall’ufficio e quasi si scontra con un carabiniere in borghese che entra e mette le mani sulla busta. “Questi soldi sono miei”, prova a dire Chiesa. “No, ingegnere, questi soldi sono nostri”, gli rispondono i carabinieri.

Lo portano a San Vittore. È l’indagato numero uno di Mani pulite. Nei giorni seguenti i fornitori del Trivulzio sono convocati da Di Pietro e ammettono: “Anche noi paghiamo. E non soltanto a Chiesa”. Si riempiono i verbali. Inizia la reazione a catena. Dopo qualche settimana, è chiaro che non sono tante tangenti slegate tra loro, ma un sistema unitario, organizzato e scientifico: gli imprenditori che vogliono appalti pagano, i partiti incassano e si spartiscono il malloppo. Altri tempi, 25 anni fa…

Il Fatto quotidiano, 17 febbraio 2017
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